L'agricoltura italiana "vive" ormai in un clima tropicalizzato. Lo dicono i fatti. Dobbiamo rendercene conto un po' tutti. E non si tratta solamente di qualche acquazzone che minaccia i comunque preziosi prodotti Doc e Dop. Ad essere travolto dalle ondate di gran caldo e gran secco alternate alle trombe d'aria e alle alluvioni, è di fatto tutto lo Stivale agricolo. L'allarme è stato lanciato da tempo, ma la consapevolezza del cambiamento non è probabilmente ancora all'altezza della situazione. Dal punto di vista economico, in gioco non ci sono solamente gli importi dei danni (comunque ormai miliardari), ma lo stesso valore complessivo della filiera agroalimentare nazionale: la prima al mondo. Qualche giorno fa, l'Anbi (l'Associazione dei consorzi per la gestione e la tutela del territorio e delle acque irrigue), è tornata a sottolineare come occorra «urgentemente varare un Piano nazionale di manutenzione del territorio al fine di contrastare, per quanto possibile, la crescente estremizzazione degli eventi atmosferici». Gli esempi più recenti non mancano. La Sicilia viene ormai presa come la "prima linea" della tropicalizzazione del mar Mediterraneo, passando da segnali di desertificazione alla violenza degli uragani. Lungo tutta l'Italia, in questi giorni, le piogge hanno fatto aumentare a dismisura il livello dei
bacini idrici e, soprattutto, ingrossato i fiumi. Per capire meglio, basta sapere che in Piemonte alcuni corsi d'acqua in un giorno hanno aumentato la loro portata di dieci volte. Ma non ovunque. In Umbria, per esempio, le piogge sono praticamente dimezzate riaspetto all'ottobre di un anno fa e conseguentemente i volumi d'acqua sono calati di oltre un milione di metri cubi. I grandi laghi del nord riescono a malapena a pareggiare i livelli dello scorso anno. Insomma, se piove un mare d'acqua, questo scorre via nella gran parte dei casi. Facendo danni spesso enormi. Per i consorzi irrigui la soluzione passa solo da una politica dell'acqua attenta e capillare, che adotti come braccia operative le gloriose strutture che hanno lavorato in questi anni per il mantenimento dei territori. Strumenti che necessitano comunque di ingenti risorse per essere meglio utilizzati. Che vale la pena spendere. È bene infatti non dimenticare che, come spesso dice la Coldiretti, l'agroalimentare è ormai di fatto la prima ricchezza dell'Italia per un valore di 575 miliardi di euro (+7% nell'ultimo anno) nonostante le difficoltà legate alla pandemia.