Le ultime parole sul pane, aveva scritto il mio amico poeta Fuad Rifka, un libriccino prezioso tradotto in italiano, di lui arabo cristiano ortodosso libanese. Sentirlo leggere in arabo, era come ascoltare un profeta che mormorasse nel raccoglimento del Getsemani. Forse in altre culture, l'equivalente del pane è il riso cotto, cibi fondativi della simbologia e cardini di significato. Che il pane sia lievitato o azzimo, saporito o insipido, candido o biondo, non importa. I panettieri si levano dal letto, quando i nottambuli si coricano. Danno inizio alla loro fatica, nella nebbia della farina bianca, che a molti nel tempo produrrà una fischiettante asma cronica. Pensano in silenzio, qualcuno parla da solo, altri cantano, anche a squarciagola, con tutti i gorgheggi e gli acuti necessari. Ho sempre pensato a una notte di fornaio come a un'opera teatrale, con un suo relativo rituale. L'attore protagonista era il nonno paterno, ilare e canterino. La sua fatica tramontava prima che sorgesse il sole, in coincidenza con la precocissima apertura dell'osteria vicina. Con una scia di fragranza, portava il pane all'oste e consumava il primo indispensabile bicchiere di vino della giornata. In finale di stanchezza, ringraziava il giorno che veniva, celebrando una sua quasi messa casereccia e così.