Minuscolo libro altamente disintossicante, quello di Goffredo Parise appena uscito da Adelphi. Il perché abbia tale proprietà lo suggerisce il titolo:
Dobbiamo disobbedire. Titolo rischioso. Ma bisogna capire a che cosa Parise si propone e propone di disobbedire. La sua è una proposta di «cultura primaria», di logica, di coraggio, di selettività, di attenzione a quello che vediamo, ai dettagli di cui è fatta la vita, proprio quella dell'ora e del giorno che stiamo vivendo. Per ottenere questa semplicità illuminante si deve disobbedire allo snobismo antidemocratico (antiumano) delle «parole difficili». Il programma letterario di Parise, dai
Sillabari in poi, fu di usare parole facili per parlare delle cose difficili: «Teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo».Il volumetto (accompagnato da una postfazione di Silvio Perrella) raccoglie alcuni esemplari di una rubrica di risposte ai lettori tenuta dallo scrittore nel 1974 e 1975. Parise aveva bisogno di questi dialoghi. La sua inesauribile curiosità umana lo portava a parlare con chiunque incontrasse, sottraendosi al falso dovere dei problemi generali per entrare nei problemi particolari e personali. Parise cerca anche qui, come scrittore, verità circostanziate. E per capire queste verità bisogna alleggerirsi dei troppi concetti, tornare «poveri», cioè capaci di «godere di beni minimi e necessari» rifiutando «di comprare robaccia, imbrogli, roba che non dura niente e non deve durare niente in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi».Oltre alle pagine in difesa della povertà (che non è né miseria né «comunismo») sono controcorrente e disubbidienti le verità espresse sull'impossibilità (per «forza delle cose») di difendere ormai il patrimonio naturale e storico dell'Italia. L'apparente, iracondo pessimismo di Parise in proposito è piuttosto un'incapacità di mentire a se stesso. Gli italiani, scrive, sono «privi di Stato» e anche dell'idea di Stato: «Gli italiani non vogliono più essere italiani», sono indifferenti al destino del loro Paese. Se è così, chi troverà un rimedio?