Rubriche

NASCERE, VIVERE, MORIRE

Marina Terragni venerdì 28 aprile 2017
Non so se il suicidio mi riguarderà mai, assistito o non assistito. Tendenzialmente no. E avrei detto lo stesso, di alcune e alcuni.
Qualche settimana fa il regista e attore Memè Perlini si è tolto la vita a settant'anni. I giornali sono stati cordogliosamente discreti sulle circostanze, sul come e sul perché, diffondendosi piuttosto sulla sua straordinaria esperienza nel teatro d'avanguardia.
Quando invece si tratta di suicidio assistito ci si regola diversamente: apprendiamo ogni particolare, le ultime parole, gli ultimi giorni, lo strazio della malattia, chi era presente alla fine e chi no.
Di norma nel caso di suicidio agito prevalgono il rispetto, la penombra, l'astensione dal giudizio. Il suicidio assistito invece viene spesso sovraesposto, sovranarrato, e giudicato un fatto di civiltà e di libertà.
C'è una ragione molto umana a spiegare queste differenze: tutti temiamo di non poterci più autodeterminare a causa di una grave malattia. C'è la paura del dolore fisico e psicologico. Ma anche il suicidio agito è concepito nel dolore.
Forse, più ancora che del dolore, la paura è di dover dipendere da altri. Di doversi affidare alle relazioni.
Ma c'è un solo momento nella vita, dico uno, in cui non siamo dipendenti? C'è un solo uomo o una sola donna su questa terra che possa nascere, vivere e morire senza essere in relazione?