Il nuovo saggio di Giuseppe De Rita e Antonio Galdo si intitola «L'eclissi della borghesia» (Laterza, pp. 104, euro 14). Ma di che borghesia stanno parlando? Non del Terzo Stato della Rivoluzione francese, né delle divisioni in classi dell'economia marxista o capitalista: parlano di borghesia intendendola come «spina dorsale di una classe dirigente e dell'esercizio delle sue funzioni». Allora sarebbe stato meglio evitare quel termine storicamente superato, anche perché nel corso della trattazione gli autori con qualche difficoltà distinguono (o confondono) la «borghesia» con il «ceto medio». «Borghesia» rimanda a una stratificazione di classi ormai perenta, ed essi stessi riconoscono che «soltanto un terzo degli italiani crede ancora al conflitto di classe (borghesia e operai), mentre il 61% è convinto della centralità del conflitto generazionale (vecchi e giovani) e oltre l'80% parla di conflitti di natura generica (per esempio ricchi e poveri, inclusi al vertice ed esclusi)». Se il libro fosse stato intitolato «Eclissi delle élites», tutto sarebbe stato chiaro fin dall'inizio. Nelle ricostruzioni storiche, il saggio presenta qualche approssimazione. Il Risorgimento è sorprendentemente definito «una rivoluzione borghese» e, nel secondo dopoguerra, «la bussola del tumultuoso cambiamento che portò al boom economico fu saldamente nelle mani di un'élite borghese, in grado di presidiare tutti i punti strategici del tessuto nazionale. Dall'economia – con personalità come Raffaele Mattioli, Adolfo Tino, Pasquale Saraceno e Ezio Vanoni – alla politica, con Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, Pietro Nenni e Palmiro Togliatti». Associare Togliatti al boom economico dovuto a provvedimenti di governo e legislativi, di politica estera e nazionale, per i quali Togliatti e il suo partito votarono sistematicamente contro? Troppo generoso, forse. Oggi, comunque, in piena globalizzazione, non è più il tempo di boom economico creato da valorosi piccoli imprenditori con le loro «fabbrichette» e da sagaci interventi statali: non si può sperare che da lì venga un nuovo ceto dirigente. L'unico politico di peso espresso dall'imprenditorialità è stato Berlusconi, verso il quale gli autori non sono tenerissimi: da dove verranno le nuove élites? Teoricamente, l'università dovrebbe essere un terreno di coltura, ma dal libro apprendiamo che in Italia «42 corsi di laurea hanno meno di 5 iscritti, 327 non superano i 15 iscritti, 37 hanno un solo studente. Abbiamo moltiplicato gli atenei (sono 95), sedi distaccate (370) e materie di insegnamento diventate 170 mila a fronte di una media europea di 90 mila». Non c'è dunque da meravigliarsi che gli studenti migliori vadano a studiare all'estero. Gli autori credono alla funzione dei partiti, ma lamentano che alle ultime elezioni amministrative di Roma abbiano concorso «migliaia di nomi di aspiranti consiglieri, tutti sconosciuti. Non sappiamo se cercano pubblicità, potere, affari. Ma una cosa è certa: potenziali leader non possono essere dei perfetti sconosciuti». Si è dunque leader per nascita o per notorietà? Manca, nella trattazione, un adeguato respiro internazionale: forse i leader futuri verranno dal Canada, come Marchionne, e personalità italiane, come Draghi, continueranno ad andare in Europa. Quel che è certo che le prospettive suggerite da De Rita e Galdo, qui non al meglio della loro meritatissima fama, sono insufficienti per difetto di orizzonte, nonostante l'elogio del volontariato e l'auspicio che i cittadini siano capaci, «organizzandosi in modo autonomo, di assicurare la buona manutenzione della strada in cui abitano». Francamente non mi sento in grado di organizzare il noleggio di un'asfaltatrice per rifare il manto della milanese via Domenichino, dove abito, che di qualche manutenzione avrebbe pur bisogno.