Sarà una piacevole scoperta per gli amanti della poesia questo Stanco di vedere di Luis García Montero che Medusa offre al pubblico italiano (pp. 224, euro 19). Lasciamo perdere i discorsi sulla scarsità di pubblico della poesia e, ancor più, della poesia straniera: non sa quanto perde chi non ne legge, e peggio per lui. García Montero è un poeta di Granada, dove è nato nel 1958 e nella cui Università insegna letteratura spagnola. È marito della scrittrice Almudena Grandes (i gusti son gusti). È il principale esponente della “Poesia dell'esperienza” che, come spiega Gabriele Morelli, nell'esauriente postfazione, «propone un'esperienza sentimentale contaminata dagli oggetti e dalle relazioni umane, e la cui importanza si riverbera sul soggetto che la trasforma in parola poetica». In parole più povere: una lirica autobiografica che si impasta nei luoghi della memoria e vive un presente carico di risonanze solitarie. In polemica con la neoavanguardia non solo spagnola, García Montero recupera la tradizione che in Machado, Lorca e Cernuda ha esponenti di eccellenza, e restituisce una poesia di classicità novecentesca non come operazione archeologica, ma con lo stupore di una ritrovata verità nella quale il tempo è una variabile secondaria. E, soprattutto, il poeta è perfettamente a proprio agio nel cromatismo della lingua spagnola, con le sue immagini e le sue metafore che a volte rasentano il cortocircuito, scaturendo dallo scontro di termini sempre in bilico sull'ossimoro, e anche con quel tanto di buffo e di retorico che qualifica la lingua che da Cervantes arriva a noi. García Montero è radicatissimo nella sua Granada, di cui è innamorato, e scrive poesie di casa e di città, di paesaggi condivisi con gli amici, e di serate solitarie in strade deserte, con il rumore del vento e uno sciabordio di onde conservati nella conchiglia della memoria: «Se busca una ciudad. La recompensa, / aprender a vivir con uno mismo, / saludar la luna en horas de trabajo, / mover recuerdos en un cajón vacío: Si cerca una città. La ricompensa, / imparare a viver con sé stessi, / salutare la luna durante le ore di lavoro, / spostare i ricordi in un cassetto vuoto». C'è anche una bella sensibilità sociale, ma da cittadino, non da ideologo fanatizzato. La traduzione di Annelisa Addolorato svaria da punte di genialità, a cominciare dal titolo della raccolta, Vista cansada (Vista stanca) reso con Stanco di vedere, a imprecisioni e diluizioni prosastiche. Per esempio, nel brano soprascritto, «salutare la luna durante le ore di lavoro» poteva essere reso meglio con «salutare la luna in orario di lavoro»; per la traduttrice «ascuas» (braci) sono sempre «ceneri», spegnendo così il calore e il fulgore del poeta; «escombros» (macerie) viene tradotto con «rifiuti» anche quando il contesto bellico poteva suggerire il senso esatto («Buscaba en los escombros de una guerra / aquello che no puede vivir en los escombros: Cercavo tra le macerie [non tra i rifiuti] di una guerra / ciò che non può vivere tra le macerie [idem]»). La traduttrice sembra inoltre trascurare l'uso dell'iperbato (trasposizione dell'ordine delle parole nella frase) che differenzia la poesia dalla prosa, e non mancano effetti banalizzanti: per esempio, nella poesia dedicata alla madre, «La luz adolescente / che baja del tranvía / con bolsas y comercios y saludos / y poco más de veinte años» viene tradotto con «la fiamma adolescente / che scende dal tram / con borse, traffici e saluti / e a poco più di vent'anni», e così l'ultimo verso, per quell'“a” in più, è ridotto a una notazione anagrafica, mentre era bellissima l'immagine della madre che scende dal tram con i suoi vent'anni insieme a pacchetti e pacchettini. Insomma, la traduzione letterale è sempre vincente sull'interpretazione, e comunque Stanco di vedere resta un bellissimo libro, apprezzabile soprattutto da chi ha qualche dimestichezza con la lingua spagnola.