Mancano ancora due minuti all’atterraggio e decine di mani intorno a me già frugano la tasca interna della giacca. È inquietante osservare le persone costrette a convivere con un cellulare spento quando sanno di essere a pochi secondi dalla riaccensione della loro esistenza. Le dita scivolano sulla tastiera, gli occhi misurano dal finestrino la distanza dal suolo: i più esperti sanno già alla perfezione gli attimi necessari per sincronizzare le ruote dell’aereo che toccano terra con i tempi della connessione della linea telefonica. Anche se magari sono in volo da meno di un’ora, è impellente l’esigenza di annullare il tempo sospeso, quel vuoto durante il quale non si può raggiungere nessuno e nessuno ti può raggiungere. Chi ci avrà cercato? Cosa sarà mai successo nell’universo mentre noi non avevamo campo? Quasi sempre assolutamente nulla. Ma non saperlo è angosciante, quasi inaccettabile. Nessuna nostalgia, sia chiaro: sarebbe folle demonizzare quell’aggeggio che ci permette di raggiungere il mondo in un secondo. Se solo però sapessimo gestire il confine sottile ma determinante tra l’uso e l’abuso, tutto sarebbe diverso. Forse quando non c’era il cellulare le persone si mancavano di più. Forse si raccontavano di più. Forse una foto era un regalo importante. Forse. Di certo nessuno si chiedeva quante tacche servono per sentirsi vivi.