Sotto alla tempesta l’acqua aveva cominciato a entrare nella residenza per anziani di Sedavì, Valencia. Entrava a rivoli, ma adagio, non sembrava una cosa allarmante. Nella casa c’erano 123 ospiti, molti dei quali invalidi, e nove infermiere. Tutti erano al piano terra.
Ma quell’acqua fangosa che penetrava dapprima lenta di colpo, rapida, come spinta da un motore impazzito, ha preso a salire veloce. Cascate di fango dalle porte finestra, una cosa mai vista. Fuori, la tempesta si accaniva, sotto a un cielo illividito. Il centralino dei pompieri, del pronto soccorso, tutti presi d’assalto, irraggiungibili. La capo infermiera ha capito: nessuno sarebbe venuto in loro aiuto. E già gli ascensori si erano bloccati.
Nove donne e 123 vecchi, e l’acqua che continuava a salire - ormai al piano terreno era oltre le caviglie. 123 ricoverati: come sei classi di una scuola. Ma, non ragazzini: paralizzati, o malati, o non del tutto lucidi. 123 vite da salvare in un unico modo: prendendoli in braccio, e poi su per le scale.
Quelle nove si sono guardate in faccia forse? Pareva un’impresa impossibile. Il pensiero, poi, dei figli a casa, forse altrettanto in pericolo. E i cellulari con le linee sovraccariche, muti. La tentazione di salire in auto e di cercare di tornare a casa.
Sì, quelle donne devono essersi guardate almeno per un attimo fra di loro. Non un senso del dovere: non erano soldati, né comandate ad agire da eroi. Invece, a quei vecchi che da anni accudivano ogni mattina volevano evidentemente del bene. Quei volti simili ai volti dei loro nonni, gli occhi che le fissavano fiduciosi ogni mattina, le mani magre che chiedevano una stretta, una carezza. No, le nove donne della Residenza Novaetad di Sedavì non potevano abbandonare i ricoverati.
E allora, uno ad uno, magari all’inizio sorridendo per non spaventarli, se li sono presi in braccio dalle carrozzelle, e, adagio, su per le scale. Ci sono anziane fragili come foglie, quaranta chili; ma anche uomini ancora pesanti. 123 diviso 9 fa più di 13 persone a testa. Come hanno fatto, in nove?
In un video una di loro, Susan, trent’anni forse, la divisa ancora coperta di fango, racconta quei momenti con semplicità, gesticolando, come facciamo noi latini, con le braccia forti. Sembra una contadina che racconti di un raccolto salvato dalla tempesta. “Quando abbiamo visto l’acqua salire li abbiamo portati in braccio tutti al primo piano”, dice. E puoi solo immaginarti i pianti, i lamenti, e le parole per rassicurarli, salendo col fiato corto sui gradini bagnati. Quanto pesavano, alcuni: la schiena pareva non reggere.
Fuori, la tempesta non si placava. E l’acqua, color di piombo, inesorabile, saliva ancora, come in un incubo. E allora sfinite le infermiere hanno ripreso in braccio gli ospiti, e senza lasciarne uno indietro li hanno portati su al secondo piano. Mi chiedo, nella paura, nelle grida, come sceglievano i primi da porre in salvo: i più spaventati? I più lucidi, quelli che capivano? Nemmeno scegliere chi salvare per primo deve essere stato facile, e, soprattutto, decidere chi lasciare per ultimo.
Ma, dice in un video Susan, sporca di fango eppure quasi sorridente, “Non ne abbiamo perso uno. C’è chi è affannato perché ha passato la notte senza ossigeno, qualcuno è ferito, ma ci sono tutti”.
Miracolo a Valencia. 123 vecchi e appena nove donne, tutti salvi. Com’è possibile? Coraggio, certo. Ma questa storia credo si spieghi solo con l’amore. Con un bene voluto a quei vecchi, inermi come bambini. In un senso maternità più grande, che nei volti segnati dal tempo riconosce dei figli, e non li abbandona.
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