Rubriche

Milano cerca una strada nella nebbia (che non c'è più)

Cesare Cavalleri mercoledì 9 maggio 2012
«Canten tucc "lontan de Napoli se moeur", ma po' i vegnen chi a Milan". È del 1935 la canzone-simbolo che Giovanni D'Anzi dedicò alla Madonnina del Duomo (traduzione superflua), ed è vero che allora si veniva a Milano con le proprie nostalgie, ma con la convinzione che – comunque – una vita migliore la si poteva trovare proprio a Milano. Anche adesso si viene a Milano per il lavoro, per lo studio, per la fashion e il design, ma è come se la città avesse perso fiducia in sé stessa, come se alla nebbia (che non c'è più) fosse subentrata una cappa di scetticismo. Salvatore Carrubba ha compiuto una riflessiva ricognizione sul campo e ne riferisce in un bel libro intitolato Il cuore in mano. Viaggio in una Milano che cambia (ma non lo sa) (Longanesi, pp. 208, euro 14,50). Innanzitutto, la situazione non è così nera come la si vuol far credere e – citando Romolo Bugaro che si è occupato del Nord-Est – Carrubba riconosce che «negli ultimi tempi il pessimismo sembra un po' usurato, sterile». Basta prendere atto che Milano non è più quella di una volta, chiusa nella cerchia dei Navigli, e che le sue periferie – la Barona, Chiesa Rossa, viale Padova, visitate da Carrubba puntigliosamente in tram – non sono il Bronx, ma realtà ben vivibili con biblioteche, luoghi di socializzazione, spazi verdi, grazie anche all'iniziativa di alcuni parroci opportunamente intervistati. Certo, ci sono occasionali fenomeni di intolleranza e di violenza enfatizzati dai giornali, ma ciò non esaurisce la predisposizione a «inventare ex novo funzioni pregiate per le nuove periferie». E allora da dove nasce la sfiducia? Carrubba suggerisce alcune ipotesi: la scomparsa della borghesia illuminata che aveva fatto grande Milano; la mancata metabolizzazione del passaggio da città industriale a città dei servizi; la vicenda di Tangentopoli «vissuta non come un fenomeno positivo, di espulsione delle mele marce, ma come una colpa collettiva che infangava Milano»; e, soprattutto, il difetto di comunicazione da parte delle istituzioni che non sembrano in grado di mobilitare la popolazione intorno a qualche grande progetto che rafforzi l'identità milanese. Un esempio macroscopico è l'Expo 2015 che è quasi alle porte tra l'indifferenza dei milanesi, che vedono crescere tanti grattacieli senza sapere perché e per chi. Altrettanto dicasi per la Beic, la grande Biblioteca europea che non parte non per colpa del Comune e della Regione, che hanno fatto tutto quello che toccava loro, ma dello Stato che non ha erogato i fondi concordati. Un altro esempio è il bellissimo Museo del Novecento, di cui il sindaco Moratti si è "comprensibilmente" appropriato e che i milanesi hanno accolto come «un dono di Gesù Bambino», mentre era un progetto pensato, avviato e finanziato fin dal 1997 dalla giunta Albertini (nella quale Carrubba era assessore alla cultura). In conclusione, bisogna sforzarsi di capire «di cosa abbia più bisogno la città: se di infrastrutture, di politica, di eventi o non, semplicemente, di un supplemento d'anima». A parte il richiamo al supplemento bergsoniano, linguisticamente logoro come il coraggio di don Abbondio che se uno non ce l'ha non se lo può dare, Carrubba «da liberale» auspica un riformismo «inteso come approccio alla politica tutt'altro che scevro da passioni, ma animato dal desiderio di migliorare le cose per tutti, di tutelare i propri interessi senza necessariamente umiliare gli altri, di considerare Milano come una risorsa comune». Conclusione che non vale solo per Milano che deve ritrovare la sua vocazione di offrire opportunità a sempre nuovi milanesi, ma riguarda l'intero Paese, dato che il diffuso sentimento di smarrimento e di incertezza nasce proprio dallo scollamento tra società e istituzioni, terreno di coltura dell'antipolitica.