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Mieli e l'«arma della memoria», vero antidoto all'imbarbarimento

Cesare Cavalleri mercoledì 18 novembre 2015
Dobbiamo essere grati a Paolo Mieli che legge moltissimi libri e ce li sa raccontare così bene anche nelle 432 pagine della nuova silloge intitolata L'arma della memoria (Rizzoli, euro 20,00), con il sottotitolo Contro la reinvenzione del passato. Il problema, infatti, è il rapporto tra la storia e i libri di storia, dato che la storia la possiamo conoscere soltanto attraverso i libri. Gli storici scrivono al presente e per il presente: al presente perché inevitabilmente ragionano secondo le categorie del tempo in cui scrivono, perché, nonostante la buona volontà, è impossibile descrivere le imprese di Traiano secondo il punto di vista dei Daci da lui sottomessi, o le gesta di Adriano secondo l'ottica di Antinoo. E scrivono per il presente perché, nella scelta dei temi delle loro ricerche e nel finalizzarle, finiscono comunque per trarne una “lezione”, anche politica, a uso dei contemporanei.Mieli sostiene, giustamente, che «l'onesto uso dell'arma della memoria è il più valido antidoto all'imbarbarimento», e nei trentatré capitoli del libro analizza casi clamorosi di manipolazione della memoria, manipolazione che presenta diverse modalità: il «frazionamento della memoria» induce a selezionare i fatti da ricordare, facendo ricorso all'amnesia, quando non alla contraffazione; ci sono poi le teorie complottistiche che pretendono «di modificare i termini della discussione con l'inserimento di tesi suggestive ancorché indimostrabili»; e si arriva all'arma suprema «diffusasi nell'ultimo ventennio, di trasferire in un'aula di tribunale casi sui quali neanche gli storici di professione sono riusciti a fare luce in modo definitivo».È interessantissimo seguire Mieli nei meandri storiografici che ha scelto. Di solito mette a confronto opinioni diverse sui singoli eventi per privilegiare l'interpretazione esposta in un determinato libro frontale, più spesso in controtendenza rispetto alla correttezza politica. Per esempio, Mieli – che in due riprese è stato direttore del Corriere (1992-1997 e 2004-2009), dopo esserlo stato della Stampa – è molto severo sull'egemonia che gli storici di sinistra hanno esercitato e tendono a esercitare sulla storia della Resistenza e dei rapporti dei partigiani con gli Alleati, ed è abilissimo nel districare le idiosincrasie tra Mussolini e il Re nella singolare diarchia che per vent'anni ha retto il nostro Paese.Il libro di riferimento è sempre autorevole: peccato che l'ultimo capitolo, dedicato «all'incredibile leggenda della Sindone», si basi sul testo recente di Andrea Nicolotti che la sindonologa Emanuela Marinelli ha esaurientemente confutato anche in base alle prove intrinseche del Sacro Lenzuolo.Singolare l'agro ritratto (con finale dolce) che John L. Heilbron ha tracciato di Galileo, e che Mieli riporta per filo e per segno; trasversale la «riabilitazione» di Attila, al cui mito soprattutto gli ungheresi hanno dato valenza positiva (con sbandate su un Attila protonazista), mentre nel 1928 Evgenij Zamjatin ne fece una metafora della rivoluzione sovietica e successivamente quasi un eroe antistaliniano. Mieli, attraverso le ricerche di Lucio Villari, spiega come l'America s'invaghì di Mussolini, ed è drastico sulla «bufala» del presunto carteggio tra il Duce e Churchill.Non si finirebbe mai di passeggiare sui sentieri tracciati dall'autore, che conducono a incontri inaspettati, come nel capitolo “Quel che dobbiamo alle navi negriere”, o nella coincidenza di date (11 settembre) fra la sconfitta dei Turchi a Vienna nel 1683, e la tragedia delle Torri gemelle americane nel 2001, quasi una rivincita dei musulmani sull'Occidente.Da storico, Mieli si chiede anche quanti furono i Rinascimenti. Per l'Italia e l'Europa, infatti, c'è chi fa iniziare il Rinascimento con Petrarca, o con la caduta di Costantinopoli (1453) o con la scoperta dell'America (1492), ma altri Paesi e altre civiltà hanno avuto in altre epoche il loro Rinascimento, inteso come apertura verso la modernità, mentre oggi osserviamo come il Giappone, le “tigri asiatiche” e probabilmente anche la Cina «siano all'avanguardia della modernità, anche se apparentemente non hanno mai avuto un loro Rinascimento. Apparentemente, appunto». Il bello della storia è che, nonostante gli scandagli degli storici, lascia intatto il suo nucleo di mistero. Perché la storia è pur sempre l'intreccio della libertà degli uomini, sotto lo sguardo di Dio.