Celeberrima è l'immagine di Friedrich Nietzsche che, perenne esule smarrito tra le vette e le voragini più ardue del pensiero, abbraccia a Torino un cavallo, come ad esprime per l'ultima volta tutto l'amore del vivente per il vivente. Correva l'anno 1989 e così si spegneva una delle menti più complesse forse della storia intera dell'umanità. Poi, per dieci anni, solo l'ottenebramento mentale, lo sguardo fisso nel Vuoto, una sorta di drammatico misticismo mancato, un nichilismo da esaurimento definitivo: tutto il pensiero consumato. E Nietzsche, una delle pochissime figure di pensatore moderno ad avere attaccato frontalmente la figura di Gesù Cristo (ne ricordo ben poche: l'altra, a livello di diffusione mondiale, è il Marchese de Sade, che faceva della sua disumanità un vanto) lascia in realtà, in tutti noi, una crepa profonda: quella della mente che si lancia a oltrepassare i propri limiti, a discapito del cuore, quasi smontando ogni possibile realtà con le armi della critica. E così lo ritroviamo, viandante pazzo, sulla strada di un'insostenibile solitudine chiedere pietà a un animale, quasi in una versione distorta del grande santo d'Assisi. Perché senza purificare la mente, e senza lasciarsi condurre dal cuore c'è solo la quotidianità di un inferno che, direbbe Ungaretti, si sconta vivendo.