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Meglio incidentata che chiusa, la Chiesa

Salvatore Mazza sabato 26 settembre 2020
Lo scorso mese di giugno suor Maria Luisa Mainetti è stata proclamata Beata. A ucciderla “in nome di Satana”, vent'anni fa, erano state tre adolescenti un po' annoiate e parecchio fuori di testa, che la considerarono un simbolo da sacrificare. L'attirarono in una trappola: “Sorella corra, sono incinta e voglio abortire”, e lei corse. Senza pensarci due volte. Qualche giorno fa, a Como, è stato don Roberto Malgesini a essere ucciso in mezzo alla strada a coltellate da uno degli immigrati a cui da anni prestava assistenza. Anche lui si spendeva per gli altri. Tra suor Maria Luisa e Don Roberto, solo per restare nel XXI secolo, una troppo lunga teoria di analoghe tragedie che, in ogni angolo del mondo, hanno falciato preti, religiose, religiosi, catechisti. Con un pizzico di cinismo questi eventi luttuosi si potrebbero definire “incerti del mestiere”, ma non è così, ovviamente. Casomai una conseguenza della vocazione, del voler essere Chiesa sempre, in ogni momento, fino in fondo, del voler essere testimoni di quel che la Chiesa è davvero. Perché è meglio una Chiesa che subisce questi incidenti, che sa e vuole andare incontro al mondo, piuttosto che una chiusa in sé stessa. Perché, chiusa, la Chiesa si «ammala» di quei «mali», che la fanno cadere nello scandalo e in quei vizi che, inevitabilmente, finiscono per allontanare i fedeli.
Ecco perché è «meglio una Chiesa incidentata, che ammalata di chiusura». Papa Francesco è tornato a ripeterlo domenica scorsa, sottolineando una volta di più uno dei temi fondativi del suo pontificato, quel dovere di «uscire» a cui non si può venire meno, anche a costo di errori e di incidenti. E richiamando la parabola del padrone della vigna, che chiama a lavorare per lui e «rappresenta Dio che chiama tutti e chiama sempre, ha sottolineato che «Dio agisce così anche oggi: continua a chiamare chiunque, a qualsiasi ora, per invitare a lavorare nel suo Regno. Questo è lo stile di Dio, che a nostra volta siamo chiamati a recepire e imitare. Egli non sta rinchiuso nel suo mondo, ma “esce”: Dio è sempre in uscita, cercando noi. Non è rinchiuso. “Esce” continuamente alla ricerca delle persone, perché vuole che nessuno sia escluso dal suo disegno d'amore».
Su questo esempio, ha aggiunto, «anche le nostre comunità sono chiamate a uscire dai vari tipi di “confini” che ci possono essere, per offrire a tutti la parola di salvezza che Gesù è venuto a portare. Si tratta di aprirsi ad orizzonti di vita che offrano speranza a quanti stazionano nelle periferie esistenziali e non hanno ancora sperimentato, o hanno smarrito, la forza e la luce dell'incontro con Cristo». È il richiamo costante a quella missione comune a cui ogni credente è chiamato. Non c'è alternativa, non c'è una via di mezzo possibile, non c'è posto per “un po'”, o si è cristiani per davvero o non lo si è. «La Chiesa – ha detto il Papa – dev'essere come Dio, sempre in uscita. Dio esce sempre, perché è padre. Quando la Chiesa non è in uscita si ammala, di tanti mali che abbiamo nella Chiesa. E perché queste malattie? Perché non è in uscita. È vero che quando uno esce c'è il pericolo di un incidente, ma è meglio una Chiesa incidentata, per uscire, annunziare il Vangelo, che una Chiesa ammalata da chiusura». Bisogna scegliere da che parte stare. Se chiusi, protetti dalla nostra stessa paura. O uscire, e rischiare.