La fede non è solo la disponibilità a credere nello straordinario, ma è la sobria e vigilante convinzione che l’eternità di Dio pulsa nel nostro piccolo tempo, precario e mortale. Palpita nel nostro tempo umano. Come scrive Walter Benjamin, ci sono dei possibili non codificati ed esiste una storia invisibile che riemerge dal suo fondo sotterraneo per farci capire che, nella sua discontinua intensità, ogni frazione di tempo ha una natura messianica. Più ancora: questo preciso minuto secondo è la porticina da cui può entrare il Messia. L’Avvento ci inscrive lì: in attesa, speranzosi, assetati. Ricordo quanto il teologo Karl Rahner diceva del duplice e chiarificatore impatto dell’Avvento su di noi: il primo è che sottolinea la nostra condizione di precursori; il secondo è che ridimensiona sorprendentemente la nostra abituale visione della vita. E in realtà non siamo tutti, un po’ come Giovanni Battista, dei precursori? Non siamo gli odierni detentori di un’esperienza destinata a essere metamorfosata e travalicata? L’Avvento ci sprona ad abitare creativamente e coraggiosamente la frontiera di un futuro più grande di noi. Perché ci sfida non soltanto a servire questo presente costituito (questo presente bloccato, prigioniero di tanti impossibili dichiarati), ma ad anticipare il futuro, legandoci fin da ora a esso, nel quale impegnarci come mediatori credibili.
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