Molti scrittori “saccheggeranno” il romanzo traendone frasi che facciano da epigrafi ai loro libri, ha pronosticato un giornalista del New York Times parlando de Il passeggero di Cormac McCarthy, grande scrittore americano scomparso da poco. Si tratta in effetti di un romanzo magistrale (reso in italiano dalla sapiente traduzione di Maurizia Balmelli, curatrice anche del nuovo Stella Maris di imminente pubblicazione sempre per Einaudi), costruito e costellato sia di dialoghi, sia di frasi e considerazioni che stanno in piedi da sole, con una loro forza espressiva autonoma. Come quando McCarthy scrive: «Il mio schermo, il tuo schermo, siamo tutti schermati». Asserzione di forza assoluta, parole che anche estrapolate dal contesto subito catturano l’attenzione per come si attagliano perfettamente al presente. Viviamo schermati perché ogni giorno ci ripariamo dietro schermi: di tablet, televisori, cellulari, computer. Ma davvero per noi sono, questi schermi, dei rifugi? Davvero tal genere di schermatura equivale a una protezione? O non piuttosto invece a una forma di fuga, di autoesilio, di progressiva alienazione dalla vita in comune con gli altri? La pervasiva, prepotente onnipresenza della comunicazione virtuale sta danneggiando in modo grave la qualità dei nostri rapporti umani. È questa un’evidenza cui molti – troppi – non prestano sufficiente attenzione, un dato di metamorfosi antropologica in atto di cui sarebbe tempo di cominciare a preoccuparsi sul serio. La “riproducibilità tecnica” teorizzata dal filosofo Walter Benjamin quasi un secolo fa, oggi, dal mondo dell’arte e dei suoi manufatti, sembra essersi traslata sulle nostre vite private, piombata a gamba tesa sull’universo delle nostre relazioni con gli altri. Benjamin aveva colto il grave pericolo insito in una mercificazione ed “estetizzazione” dell’arte (attraverso sue riproduzioni sempre false rispetto all’autenticità delle opere originali). Oggi invece, a essere riprodotta tecnicamente e contraffatta per come sempre estetizzata, pare essere divenuta l’intera nostra vita. Se vediamo un bel tramonto, subito dobbiamo immortalarlo e condividerne lo scatto fotografico con il maggior numero di persone possibile; stessa cosa accade con vette di montagna e ogni sorta di panorama, altrettanto che per spaccati domestici, finestre bene illuminate, animali d’appartamento, figli piccolissimi o già cresciuti, amici, parenti anche molto anziani, come pure i bambini e gli animali domestici chissà quanto davvero felici di essere coinvolti in simile compulsiva, frenetica attività di riproducibilità estetizzante. La vita “privata”, è tale anche perché privata di intimità, e di quell’aura di mistero necessaria a renderci sia attraenti, sia a nostra volta attratti dall’altrui compagnia. Dietro gli schermi, intenti a continuamente riprodurre e divulgare (quella frenesia solipsistica definita “condividere”), più che schermarci, si ha l’impressione che stiamo appassendo. Fintamente in compagnia, riempiti da immagini di vite degli altri e dagli altri a getto continuo replicate e riversate sui nostri schermi, di fatto in realtà siamo sempre soli. Via via più soli. Soli ma senza esser capaci di stare soli, impauriti dal silenzio, dalla possibilità di “scollegarci” e tornare all’ascolto dei nostri veri pensieri, quelli non alterati dalla virtualità compulsiva. Tutta l’infelicità umana si riassume nel non saper rimanere tranquilli nella propria stanza, diceva Pascal. A contrappunto, il sommo scrittore Cormac McCarthy: «Potrei chiederti quand’è stata l’ultima volta che te ne sei rimasto per conto tuo. A guardare venir buio. A guardare venire giorno. A pensare alla tua vita».