Quando a metà Ottocento, col trionfo del capitalismo, la società si sottomise come mai prima alle esigenze economico–organizzative della produzione industriale, anche la filosofia fu costretta a scoprire la società. Al suo interno nacque la sociologia, la scienza della società moderna, dato che pensiero, conoscenza e coscienza avevano cominciato a mostrare una dipendenza nuova e senza precedenti dai legami sociali. La svolta fu clamorosa con Karl Marx, che divenne poi il più famoso e influente dei filosofi moderni. La sua idea centrale fu che per pensare filosoficamente, moralmente e politicamente senza ipocrisie era necessario diventare economisti e sociologi. Dopo di lui e correggendo il suo determinismo materialistico, il sociologo maggiore è stato Max Weber (1864–1920), che viene ora ricordato nel centenario della sua morte. Weber viene comunemente collocato nel pantheon degli intellettuali più innovatori dell’inizio del Novecento, con Freud, Einstein, Proust, Saussure, Stravinskij, Keynes, Kafka… Oggi la sociologia come scienza della totalità sociale nella connessione dei suoi molteplici aspetti è piuttosto in declino, come del resto altri rami delle scienze umane e degli studi umanistici. L’intelligenza computazionale e artificiale sta pericolosamente monopolizzando l’attenzione dei ricercatori, mentre la creatività è diventata più un banale mito di massa che reale capacità di inventare criticamente forme e valori adeguati ai tempi.
Weber previde molte involuzioni culturali e sociali, anzitutto quelle dovute alla dominante logica dell’organizzazione per l’organizzazione. Distinse fra un agire razionalmente efficace rispetto a uno scopo (la crescita capitalistica) da un agire razionale rispetto a valori (ideali, etici). Ma le maggiori e più note teorizzazioni di Weber riguardano i processi di razionalizzazione crescente dell’intera vita sociale in vista dell’efficienza. Nella storia della borghesia capitalistica la razionalità per l’efficienza imprigiona gli esseri umani e la vita associata in una “gabbia d’acciaio”, o meglio nel funzionamento di una macchina organizzativa basata sulla divisione del lavoro e sulla specializzazione sempre maggiore delle competenze. È questo, dice Weber, «l’involucro di quel futuro asservimento in cui gli esseri umani saranno costretti ad adattarsi impotenti», solo perché la macchina sociale possa perpetuarsi e potenziarsi. Ancora oggi si discute di questo. Che tipo di socialità è quella di cui il capitalismo ha bisogno? Che ne è della società quando i fini e i mezzi stabiliti dell’agire sociale sono dogmi economicisti a cui ubbidire senza discussione?