L'anniversario del Sessantotto si incrocia quest'anno con quello della nascita, nel 1818, di Karl Marx. Le tentazioni sono ovviamente due. La prima è dire che il presente non ha più niente a che fare con quel lungo passato marxista che nel Sessantotto ebbe il suo ultimo exploit politico. La seconda tentazione è che nell'attuale crisi di tutto e in particolare della sinistra, la sola cosa da fare è ripartire da lì: dal 1818, dal 1848 (pubblicazione del Manifesto del partito comunista) e dal 1968, il più recente esperimento occidentale di un pensiero e di un'azione in vista di un rivoluzionamento sociale, culturale e politico capace di riattivare il rapporto con tutte le varianti del pensiero di Marx (Sorel, Lukács, Korsch, Bloch, Benjamin, Marcuse...). Intanto, a dare forma e misura al revival c'è un film di Raoul Peck, Il giovane Marx. Si annuncia dunque un Marx come neoromantica “icona pop”, nella quale del pensiero, della filosofia della storia, della critica dell'economia e della teoria della rivoluzione ci sarà poco, ma circolerà nell'aria qualcosa di molto suggestivamente confuso e giovanile, che darà credito a chi vorrà vantarsi di essere rimasto fedele al rivoluzionario Marx per tutta la vita: una coerenza, questa, più sospettabile che lodevole. La coerenza ha i suoi guai molto poco marxisti: tende spesso a ignorare i fatti e la storia per sognare l'utopia nel solo campo in cui è assurda: in politica. Marx era un nemico degli utopisti e degli idealisti. Per lui la rivoluzione era un fatto potenziale, ma ineluttabile dovuto all'autoliberazione della classe operaia motore del capitalismo. Sarebbe stata la stessa dinamica del sistema capitalistico a “costringere” la classe operaia a rendersi consapevole del proprio ruolo storico e infine a realizzarlo. Ridotto a logica fattuale ineluttabile, il pensiero di Marx, se lo si accetta come un teorema, resta eternamente vero da ieri al futuro, o viceversa si è già dimostrato storicamente falso. Ma il marxismo di Marx (che dichiarò polemicamente di «non essere marxista» per sottrarsi al dogmatismo scolastico dei suoi seguaci) non era solo un teorema sul destino della Totalità sociale: era anche un vasto e vario insieme di analisi empiriche e di ipotesi singole, alcune delle quali tuttora utilmente accettabili (il perdurante dominio dell'economia capitalistica su tutte le forme dell'agire umano) altre invece confutate dalla realtà (una classe operaia consapevolmente rivoluzionaria e intesa come un blocco unico, non sembra proprio visibile). Meglio dunque il Marx storico del capitalismo che il Marx teorico della rivoluzione inevitabile. Poi (si sa) ognuno è libero di pensare o di delirare a modo suo. Le infatuazioni sono il più diffuso surrogato di fedi e certezze che non ci sono.