Si dice che sono sempre i migliori quelli che se ne vanno troppo presto. Non è vero. Mario non era il migliore, e chi ha provato la fatica di lavorargli accanto, lo sa. Al giornale, per rispetto e per riconoscergli una diversità superiore, era per tutti “il Presidente”, e la maiuscola si sentiva. Permaloso e brontolone, terrore dei più giovani: arrivava ciondolando, portandosi addosso il cappello d’ordinanza e un loden verde che aveva fatto troppi tagliandi. Però era un grande cronista di strada, il randagio che molti di noi avremmo voluto essere quando ancora vivevamo nell’illusione poetica di questo mestiere. Mario in realtà abitava in redazione. Ma poi a casa, ci doveva pur tornare. E lì era solo. Con i suoi ritagli, la poltrona di velluto sfondata, la dignità di chi non chiede mai nulla, il frigorifero desolato. Per questo, la vigilia di troppi anni fa, gli portai a casa una bottiglia. Di latte, perché il vino gli faceva male. Mi sorrise forte, dopo aver spolverato via l’imbarazzo. Passammo un’ora a parlare di niente. Ma quando me ne andai, mi disse che era stata una grande festa. In due, con un bicchiere di latte. Mi salutò chiudendo la porta come se fossero appena uscite cento persone. Mi aveva insegnato che nella vita occorre imparare ad amare ciò che si desidera, ma anche ciò che gli assomiglia. Grazie Mario, ovunque tu sia ora.
E buon Natale.
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