Mariátegui, un maestro dagli indios a Gobetti
degli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo (e anche della teologia della liberazione), ha ragionato sull'identità culturale del semi-continente e in particolare su quella dei dimenticati indios del suo Paese in un libro che chi si occupa della storia del pianeta negli ultimi decenni dovrebbe pur conoscere: i Sette saggi sulla realtà peruviana, diffuso in Italia solo nel 1972 dalla Einaudi, mentre gli Editori Riuniti tradussero l'anno dopo le sue Lettere dall'Italia e altri scritti. Mariátegui è vissuto infatti a Roma nel 1919 e oltre (lo ricorda una targa sulla casa in cui abitò in via della Scrofa) e ha girato la penisola, spingendosi fino a Torino
soprattutto, forse, per incontrarvi Piero Gobetti. E ci sono certamente delle affinità tra i loro modi di vivere la politica che meriterebbero di essere approfonditi. I Sette saggi sono fondamentali per conoscere in particolare il mondo degli indios del Perù, insieme ai romanzi e ai saggi antropologici del grandissimo Arguedas, in qualche modo un suo erede, ma più in generale per comprendere le basi di movimenti politici del sub-continente, una loro specificità che va oltre le letture condizionate dall'ortodossia marxista. Ma insieme a loro andrebbe considerata la rivista di Mariátegui Amauta (che in quechua è parola che indica il "maestro", colui che ha qualcosa da insegnare, maestro nel senso più altro, di guida, di profeta). Mariategui dovrebbe esserci caro, infine, per un altro motivo: perché fu il grande amico di uno dei più grandi poeti del '900, César Vallejo, morto dopo aver preso parte alla guerra civile in Spagna, morto a Parigi dove si era rifugiato povero e malato. (La Storia della Morante porta comincia con una sua dedica: «Por el analfabeta a quien escrivo»). Mariátegui e Vallejo, due grandi nomi della cultura latina del '900, ma anche del pensiero politico, dei dolori e delle speranze e della poesia di un secolo.