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Maria Callas, dopo quarant’anni il mito non tramonta

Cesare Cavalleri mercoledì 18 gennaio 2017

Quarant’anni senza Maria Callas. Il più importante monumento per il quarto decennale della morte della diva, è il maxi-tomo allestito dall’editrice Quodlibet, Mille e una Callas, (640 pagine, euro 26) a cura di Luca Aversano e Jacopo Pellegrini. Il fenomeno Callas va ben oltre la storia del melodramma: fa parte del costume, della memoria collettiva e, fatto vieppiù singolare, la sua gloria è soprattutto postuma. In vita, la Callas fu oggetto di furibonde polemiche e il suo fulgore artistico durò solo una decina d’anni, dal 1949 al 1959. Ma, grazie all’intuito di Walter Legge, direttore della Emi e dal 1953 produttore delle sue registrazioni, la sua voce è consegnata all’eterno, per la disperazione delle interpreti successive: la grande Elizabeth Schwarzkopf, che oltretutto era la moglie di Legge, dopo aver assistito a una Traviata della Callas dichiarò che non avrebbe mai più interpretato quel ruolo. I 69 CD che la Warner, dopo aver acquisito la Emi, ha rimasterizzato nel 2014 sono lì a dimostrarlo. Non per nulla, dei 36 collaboratori del maxi-tomo, soltanto tre, per ragioni anagrafiche, hanno visto la Callas in teatro, ma tutti possono parlarne con competenza e documentazione. Come osserva Giorgio Biancorosso nel suo bel saggio, la qualità delle incisioni in studio è certamente superiore alle registrazioni dal vivo, eppure non hanno quel pathos che l’esecuzione dal vivo possiede. Lo si può verificare dal confronto con le numerose registrazioni "pirata", alcune rintracciabili nei 26 CD dell’edizione - per molti versi discutibile - di Jürgen Kesting: certo, la registrazione di quella Lucia del 1952 in Messico, in cui si sente perfino il sussurro del suggeritore, è pessima, eppure sembra proprio di essere lì in teatro, e l’applauso che sentiamo scrosciare è anche il nostro. Il maxi-tomo è scandito in sei sezioni. In "Corpo e voce", eccelle il saggio di Luciano Alberti sulla «scenica scienza» della Callas, che certamente deve molto a Luchino Visconti, ma che è dono comunque innato e scientemente amministrato. Purtroppo il materiale filmato di cui disponiamo è scarsissimo: nessuna opera intera, solo due versioni del secondo atto di Tosca (Parigi 1958, e Londra 1964) e i concerti di Amburgo e Londra dopo quello in eurovisione dall’Opera di Parigi nel 1958 (in platea c’era Onassis, e fu l’inizio della tragedia...). Propriamente musicologici gli otto saggi riuniti nel segmento "Sulla scena". Una sezione esclusiva è per Medea, e Stefania Parigi può ragionare sul controverso film di Pasolini in cui «la cantatrice muta» (magnetica, eccessiva) è stata doppiata in italiano da Rita Savagnone, mentre l’edizione in inglese ha proprio la voce callasiana. Nella sezione "Il modello Callas", Gina Guandalini compie una ricognizione della critica coeva. Com’è noto, fin da subito i critici si divisero sulle interpretazioni della Callas. Franco Abbiati, il critico musicale del Corriere, all’inizio era sospettoso, ma fu conquistato dal Poliuto scaligero del 1960; la pattuglia dei callasiani convinti è capitanata da Fedele D’Amico, e ne fanno parte Teodoro Celli, Rodolfo Celletti, Eugenio Gara, Emilio Radius ed Eugenio Montale. Contrario fu Beniamino Dal Fabbro, che dal 1968 al 1982 è stato il critico musicale di Avvenire. Luciano Alberti riporta una «conversione» di Dino Buzzati dopo una Medea del 1961: lo scrittore, che fino a quel momento aveva considerato la Callas «il tipo di donna da cui conviene stare alla larga», fu conquistato dalla scena con Neris in cui la divina si getta a terra: «Non ho mai visto nessuna donna distesa a terra con tanto stile ed eleganza. Non so come avesse fatto, ma perfino le minime pieghe del manto erano composte a raggiera, geometricamente una per una».