María alla ricerca dei desaparecidos
Degli oltre 60 mila desaparecidos in Messico, quattro erano suoi figli: Raúl e Jesús Salvador, Gustavo e Luis Armando avevano tra i 19 e i 25 anni, quando a distanza ravvicinata, due nell'agosto 2008 e gli altri due nel settembre 2010, sono scomparsi per mano delle bande armate che hanno devastato il Paese nello scenario tristemente noto della guerra tra i cartelli della droga.
María Herrera avrebbe dovuto essere a Palermo dopodomani, sabato 21 marzo, a portare la sua testimonianza alla 25esima edizione della Giornata della Memoria e dell'Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, che però per l'emergenza sanitaria in corso è stata rinviata al prossimo 23-24 ottobre. María Herrera è una donna semplice, una contadina di 71 anni, madre di 8 figli, vedova dal 2009, e non ha mai smesso di pensare alla metà della sua prole di cui non si ha più tracce. E come potrebbe: sa che due erano sulla strada per Atoyac, nello Stato di Guerrero, e gli altri due sulla collina di Vega de Alatorre quando i gruppi armati li hanno assaltati. Ma non sa se sono morti, né chi li ha uccisi né tantomeno dove sono finiti i loro corpi. «Per la polizia – racconta – erano nel posto sbagliato al momento sbagliato» e nessuno ha mai nemmeno fatto finta di cercarli, come accade anche per tutte le altre vittime della bande armate svanite nel nulla.
Dopo la scomparsa dei figli, María ha venduto tutto, abbandonato la città di Michoacá, dove la famiglia coltivava la terra e commerciava, e si è trasferita a Città del Messico per stare più vicina al Parlamento e ai Tribunali, che in questi anni non hanno mai dato segno di voler indagare sulle "sparizioni forzate". Così lei, piccola e determinata, ha promosso istanze, avanzato petizioni, aggrappandosi solo alla sua forza di madre. Nel 2011 si è unita al Movimento per la pace del poeta Javier Sicilia, padre di un altro desaparecidos, sentendo che il suo dramma era quello di decine di migliaia di altre madri. Nel 2012 María ha fondato una rete che riunisce 60 associazioni di genitori di ragazzi scomparsi, sparse in 25 Stati messicani.
María e le altre mamme da anni pretendono che, in assenza di indagini nazionali, intervenga il Comitato delle Nazioni Unite sulle Sparizioni forzate, organo indipendente e neutrale: ma di fronte ai dinieghi dei presidenti Felipe Calderón prima ed Enrique Peña Nieto dopo, María nel 2018 ha intentato una causa per far dichiarare per via giudiziaria la legittimità dell'intervento del Comitato dell'Onu nel Paese. La causa è ancora aperta, ma la buona notizia è che poche settimane fa un tribunale collegiale ha rimesso la questione alla Suprema Corte di giustizia del Messico. Un piccolo passo, una grande vittoria, in un Paese dove la ricerca della verità è ostacolata da una corruzione endemica e da una contiguità tra criminalità e forze di polizia. «Non cerchiamo nemmeno più i colpevoli – dice María – chiediamo solo di poter riavere i resti dei nostri figli».
Periodicamente María Herrera con i collettivi locali di mamme, le Brigate di ricerca delle persone scomparse, va a scavare laddove arrivano segnalazioni di fosse comuni. Trovano brandelli di vestiti, fedine e orologi, scarpe e occhiali. Fotografano, catalogano, trasmettono a un capo all'altro del Paese, finché quei resti non trovano un nome, in una sorta di banca dati nazionale del lutto. La prima "busqueda" (ricerca) del 2020 si è svolta alla fine di febbraio a Papantla, Veracruz, dove María pensa che possano essere stati seppelliti due dei suoi figli. «Non sopporto di vedere quelle 4 sedie vuote intorno al mio tavolo – racconta ad Avvenire – e questo mi dà la forza di andare avanti».