Il problema non sono tanto i beni materiali, quanto la nostra maniera di farne uso. È talmente facile che la logica si capovolga, senza che neppure ce ne rendiamo conto, e finire per essere nella pratica dominati da quanto possediamo. Quante volte i beni, invece di allargare gli orizzonti della nostra umanità, ci riducono, ci sminuiscono, ci sequestrano in una logica di avarizia e ansietà! Quante volte i beni, invece di essere una possibilità di dare concretezza alla bellezza della carità, di investire nella costruzione della fraternità e dell'amicizia sociale, ci rendono malinconici costruttori di muri e di asimmetrie che finiamo per tollerare! Quante volte, in nome dei beni privati, rinunciamo al bene comune, relegandolo a un piano secondario. Ci riduciamo a essere soltanto guardie del nostro appartamento e vigilantes del nostro granaio. E anche la nostra preghiera assomiglia al soliloquio del possidente stolto della parabola di Gesù: «Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti!» (Lc 12,19).
È proprio vero: quando richiudiamo la mano per afferrare un qualsiasi oggetto dicendo «è mio», abbiamo guadagnato l'oggetto, ma perduto la mano. Per la preghiera, invece, ci servono mani libere da qualsiasi forma di autosufficienza. Signore, insegnaci a fare della vita un dono.