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Mani in alto

Alessandro Zaccuri sabato 10 dicembre 2022
Gli storici hanno trovato per lui nomi diversi: Arthur, Israel, Tsvi. Ogni ricostruzione ha le sue buone ragioni, nessuna è ancora riuscita a fissare l’identità del bambino che, nel maggio del 1943, esce con le mani in alto da uno dei nascondigli in cui gli ebrei di Varsavia hanno trovato rifugio durante l’insurrezione del Ghetto. Scattata dai militari nazisti per documentare il successo dell’operazione, la fotografia è tra le più adoperate per testimoniare la tragedia della Shoah. L’immagine è incruenta, niente a che vedere con i cumuli di cadaveri di Auschwitz, né con i corpi scheletrici dei prigionieri ammassati negli stanzoni del lager. A dominare, nell’istantanea di Varsavia, è un attonito sentimento di paura. Una fotografia piena di silenzio, rotto solamente dal movimento della donna (la madre? una parente? una vicina?) che si volta verso il bambino come per dirgli qualcosa, ma probabilmente evita di aprire bocca, nel tentativo ingenuo di evitare la rappresaglia. Non fosse per lo sguardo terrorizzato, il bambino sarebbe un bambino come gli altri. Il berretto in testa, i pantaloni corti come si usavano una volta. Appare per un momento sulla scena della storia, destinato al lugubre ruolo di comparsa. Ma non se ne va più, resta fermo in un gesto che è memoria, pietà, atto d’accusa. © riproduzione riservata