Tutto comincia una settimana fa. Candida Morvillo (“Corriere”, 26/5) intervista Gianluca Vacchi, «imprenditore e influencer». Prima domanda, l'incipit folgorante che va dritto al cuore della questione: «Quante case ha?». Non prendiamocela con la giornalista, capace qui di un'ironia finissima, forse fin troppo. Vacchi fa sfoggio di modestia: «Il mio patrimonio è cento volte quello che mi ha lasciato mio padre». Ammette i propri limiti: «Non saprei fare il manager». Illustra le meraviglie della sua camera iperbarica e della vasca di ghiaccio in cui immerge le preziose membra. Alla fine non hai capito che mestiere faccia ma hai capito benissimo che trasuda denaro e si gode la vita. Ne emerge un ritratto di inarrivabile antipatia e la cosa potrebbe finire lì. Invece no. Il giorno dopo, sullo stesso quotidiano (“Corriere”, 27/5), Massimo Gramellini colpisce il bersaglio facilissimo, titolo: «Una vita in Vacchanza», concludendo con una prevedibile morale: «Fare i soldi senza faticare e godersi la vita esibendola sui social a milioni di sguardi estasiati: Vacchi è l'ultima autobiografia di una nazione di ex produttori che ambiscono a vivere di rendita (finché si può)». E potrebbe davvero finire lì. Ma la palla passa alla “Repubblica” (28/5) con «la colf che ha trascinato l'influencer in tribunale. “Lavoravo 20 ore al giorno. Vacchi ci tirava bottiglie se non trovava le medicine”». Uno sarebbe pure sazio ma no, la “Repubblica” (29/5) non molla: «Vacchi, nuove accuse da due capi staff: “Ci ha pagati in nero per dieci anni”». Finita? No, almeno la morale ci vuole.
E
Michele Serra (“Repubblica”, 31/5) non si tira indietro: «La gente che abbocca (…). I soli veri mandanti di Vacchi sono loro, che hanno costruito l'idolo ammonticchiando miliardi di clic per seguire un tizio che segue solamente se stesso (…). È il loro specchio. Il loro doppio». Fine.