Magia olimpica: l'utopia e la speranza pattinano insieme
Lo sport, tuttavia, è strumento dalle mille risorse e generatore infinito di storie, come diceva Nelson Mandela, capaci di cambiare il mondo. In meglio, naturalmente. Perché, se fra la loro qualificazione e i Giochi ci sono stati mesi di minacce, razzi lanciati per provocazione o bottoni nucleari di cui bullarsi, proprio (e finalmente) ieri, delegazioni dei due Paesi si sono incontrate in un piccolo villaggio sul confine. Si chiama Panmunjeom ed è il posto dove nel 1953 venne firmato un armistizio, al termine di una guerra iniziata tre anni prima che causò 2.800.000 vittime, rappresentando una delle fasi più acute della guerra fredda con la discesa in campo di Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e (già allora) con un concretissimo rischio di utilizzo di armi atomiche. I Coreani sono gente precisa, per cui quella linea del 38° parallelo dove la guerra si fermò, venne presa molto sul serio. Il villaggio di Panmunjeom, infatti, sorge esattamente su quella linea. Dell'intero villaggio fu scelto un edificio (dove materialmente l'armistizio fu firmato) tagliato esattamente a metà dalla linea del confine. Anzi, pare che addirittura il tavolo su cui furono firmati i documenti ufficiali fosse tagliato in due da quella stessa linea.
Il peso di un mondo malato e arrabbiato è caduto, ieri, sulle spalle di due ragazzi e del loro talento, capace di diventare eccellenza e realizzare il loro sogno più grande: quello olimpico. Il mondo intero ha guardato uomini apparentemente uguali (stessi tratti somatici, vestiti quasi nella stessa maniera) sedersi attorno a un tavolo che, mai come un questo caso, rappresenta un confine. Un confine che è una linea, dove da una parte c'è la potenza di un messaggio di uguaglianza, di rispetto, di fratellanza, di desiderio, dall'altra la brutalità e la sgradevolezza di un mondo che vive costantemente con i nervi a fior di pelle. L'ha spuntata ancora una volta lo sport, strumento di diplomazia e di pace. Il Comitato Olimpico Internazionale ha derogato ai termini dell'iscrizione per i Giochi, la Corea del Nord ha aperto alla possibilità di inviare una sua piccola delegazione di atleti e di artisti che la Corea del Sud si è detta felice di accogliere. Dopo la "diplomazia del ping-pong" che avvicinò Usa e Cina negli anni settanta, dopo la Coppa del Mondo di rugby in Sudafrica del 1995 che permise al Presidente Nelson Mandela di avviare il processo di uscita del Paese dall'apartheid, dopo la partita di baseball che Barak Obama e Raul Castro videro insieme alla Ciudad Deportiva de L'Avana, lo sport ha trovato di fronte a sé, per l'ennesima volta, una meravigliosa ed enorme responsabilità.
Personalmente ho avuto la fortuna di vivere la magia del Villaggio Olimpico per due volte, ad Atene nel 2004 e a Londra nel 2012. Quel luogo è l'esatto contrario di quella linea di confine che taglia in due il tavolo delle trattative di Panmunjeom. Ogni Villaggio Olimpico, in ogni parte del mondo, è piuttosto un'isola di Utopia, proprio come quella di Tommaso Moro. Un non-luogo dove la Palestina vede Israele dalla finestra, dove uno Scandinavo corre dietro a un Giamaicano per chiedergli una foto, dove un cestista americano milionario sta alla mensa, con il suo vassoio in mano, bene in fila dietro ad un lottatore afghano senza neanche immaginare per un attimo di passargli prepotentemente davanti. Il fascino e la bellezza di questa isola di Utopia compare ogni quattro anni, per un paio di settimane. Poi, purtroppo, si dissolve nel nulla. Che mondo sarebbe se questi atleti, capaci di raggiungere e vivere questa utopia potessero diventare classe dirigente dei loro Paesi? È una speranza, un augurio, un auspicio che tuttavia nulla vuole togliere alla bellezza, alla leggerezza, alla felicità che tra qualche settimana vedremo scivolare sul ghiaccio sotto i pattini di una coppia di ragazzi nordcoreani, felici come non mai. Felici per se stessi e, certamente, felici anche un po' per tutti noi.