Per la quinta volta nel breve spazio di un biennio, i cittadini bulgari sono chiamati a elezioni anticipate, dopo che l’altro ieri, con un decreto del presidente della Repubblica Rumen Radev, è stato sciolto il Parlamento nato appena il 22 ottobre scorso. Alle urne si tornerà il 2 aprile e per il “Paese delle rose”, entrato a far parte dell’Unione europea nel 2007, sarà l’ennesimo test sul terreno della tenuta democratica. Da tempo, infatti, l’affluenza al voto stenta a superare la soglia del 40 per cento e la frammentazione politica non accenna a ridursi. Tanto che nessun partito riesce più a conquistare una chiara prevalenza in termini di seggi parlamentari.
Anche prima dell’ultimo scioglimento anticipato, il capo dello Stato ha provato ad affidare il mandato di formare l’esecutivo a ben tre compagini di orientamento molto diverso, ma nessuna è riuscita a garantire la soglia dei 121 seggi necessari per governare. E pensare che, nel linguaggio politico da tempo corrente in Italia, Sofia era proverbialmente nota per le sue maggioranze amplissime, definite non a caso “bulgare”, proprio perché tendevano ad avvicinarsi al 100 per cento dei voti disponibili.
La definizione nasceva dalla lunga permanenza al potere del leader comunista Todor Zhivkov, salito al vertice del partito l’anno successivo alla morte di Stalin (1954) e rimastovi ininterrottamente fino al 9 novembre 1989, appena qualche ora prima che i berlinesi cominciassero a picconare il “muro della vergogna”. Alle soglie degli 80 anni, il dittatore bulgaro vantava il record di longevità al comando tra i capi del blocco sovietico, confermato in più occasioni dalle elezioni-farsa che, come quasi in ogni regime di quell’area, si svolgevano per dare una parvenza di democraticità al sistema: nelle urne di solito si poteva votare per un solo candidato e il ferreo controllo delle autorità garantiva percentuali altissime di consenso popolare. Quelle di “bay Tosho”, cioè “zio” Zhivkov, come veniva chiamato familiarmente dai suoi concittadini-sudditi, erano particolarmente strepitose, molto vicine all’unanimità.
Di qui, dunque, l’attributo di “bulgaro” quando, in una qualsiasi votazione politica, il vincitore di turno registra consensi a valanga. Se è esatta la ricostruzione proposta alcuni anni fa da Enrico Testa in un volumetto edito da Il Mulino, il primo a evocare pubblicamente l’aggettivo, anche con un pizzico di autoironia, fu Bettino Craxi, nel maggio del 1989, quando fu rieletto segretario del Partito socialista italiano con il 92,3 per cento dei votanti. Da allora l’espressione è entrata nel lessico consueto e sempre con un’accezione piuttosto negativa.
Oggi invece, a Sofia e dintorni, non sono pochi a rimpiangere i tempi dei quasi-plebisciti sul nome dell’immarcescibile Zhivkov e purtroppo non solo per ragioni di stabilità politica. La mancanza di una guida sicura rischia di costare caro al Paese anche nei suoi rapporti con i partners dell’Unione, a cominciare da quelli più preoccupati per la difesa dei confini esterni, nei confronti dei migranti che si affacciano in Europa attraverso le non blindatissime frontiere bulgare. Diventa poi quasi proibitivo il traguardo di adesione all’Eurozona a partire dal 2024, mentre potrebbe riaccendersi la disfida etnico-linguistica con la Macedonia del Nord, dopo la rinuncia al veto nella trattativa tra Bruxelles e Skopje. Tra i paradossi della storia, quello delle maggioranze introvabili in Bulgaria non è certo tra i minori.
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