Per teorizzare «l'esilio di Dio» dalla democrazia, Paolo Flores D'Arcais ha fatto ricorso al primo dei comandamenti che il Signore, consegnandoli a Mosè, incise sulla pietra perché non potessero essere abrogati. Ovviamente il filosofo ne ha fatto una parodia: «Il primo comandamento della sovranità repubblicana è “Non pronunciare il nome di Dio in luogo pubblico”», dove quel Nome (Ha Shem, “il” nome dicono gli ebrei) è già pronunciato proprio da lui D'Arcais e in pubblico (la Repubblica, lunedì 9). Così è, però, di per se stesso il primo argomento che ridicolizza l'ostracismo darcaisiano. La religione – scrive il Nostro – è compatibile con la democrazia solo se «addomesticata, cioè convertita all'autonomia assoluta della norma civile rispetto alla legge religiosa» e «se disponibile e assuefatta all'esilio di Dio dalle vicende e dai conflitti della cittadinanza». La quale, con questa mutilazione dittatoriale delle proprie convinzioni (è l'esperienza dei regimi comunisti e nazisti con i gulag e i lager) cessa sin dal principio di essere una democrazia, perché questo nome significa “popolo” (dèmos) e kratos (potere). Soltanto gli iscritti all'Uaar (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) sarebbero infatti ammessi non alla cittadinanza, ma a una “auto” o “aristocrazia”. Lo dice lo stesso D'Arcais: «Il “darsi da sé la legge”, anziché obbedire a quella eterna di Dio che fa di Homo sapiens il creatore e signore della norma, possiede una logica incontenibile». O impossibile? Che confusione regna nella filosofia darcaisiana? Chi la fa la norma? Dio o Homo Sapiens? Conclusione di D'Arcais: «Le religioni compatibili con la democrazia sono dunque religioni docili, che hanno rinunciato (leggi: sono state costrette a rinunciare) a ogni fede militante». È probabile che, se i suoi programmi si realizzassero, D'Arcais pretenderebbe anche la nostra gratitudine, perché ai fedeli di una «religione docile» il suo regime lascerebbe solo «la sfera personale in interiore homine e i luoghi di culto».«MA VEDI DE ANNATTENE»Accanto a un'analisi dei primi due anni del pontificato di Francesco, scritta con misura dal vaticanista Marco Politi e in cui poco c'è di discutibile, Il Fatto Quotidiano ha collocato (lunedì 9) un commento dello scrittore (ex Msi) Pietrangelo Buttafuoco coerente con il suo cognome, ma che definire analisi sarebbe esagerato. Comincia infatti con un titolo che afferma: «Non indica un giudizio, ma è il segno della fine» e si giustifica con la seguente affermazione: «Ecco il lapsus (?). Ha preso un nome che gli ha permesso di numerare col principio, ma tutto il suo teatro è un ammiccare alla fine». E poi: «Papa Francesco, perfetto per i souvenir delle bancarelle, sembra sparlare da una centuria di Nostradamus». A questo punto l'unica reazione coerente è quella, che appare in una pagina successiva dedicata a Matteo Salvini, del poeta romanesco Gioacchino Belli: «'A coso, ma vedi de annattene!» PREFERIBILE QUALCUNOSu Libero (venerdì 13) una cronista, Tiziana Lapelosa, racconta: «Gli stranieri irregolari vengono curati, la Regione Lombardia paga, Roma non rimborsa. Risultato: cento milioni di nostri euro spesi dal Pirellone […] A sollevare la questione è il "solito" Matteo Salvini, che della battaglia contro l'arrivo di presunti profughi e stranieri irregolari ha fatto il suo cavallo di battaglia». E così, ieri su Twitter ha sbottato: «I clandestini hanno "diritto" a cure gratis: Lombardia ha speso 100 milioni e Stato le rimborsa zero». Poi l'affondo: «Io sospenderei le cure ai clandestini». E su Facebook ha aggiunto: «Per qualcuno sarà razzismo, per me è giustizia e buon senso». Noi, scandalizzati, stiamo con quel qualcuno.