Mi ha sempre colpito l'uso dell'espressione "Grandi Narrazioni" per indicare un'ormai tramontata capacità occidentale di interpretare la storia umana. Le ideologie che dall'illuminismo fino a metà Novecento hanno dato un senso (spesso grandiosamente univoco) alle vicende del genere umano sarebbero state mito e narrazione: il ritorno umanistico all'antichità classica, la lotta fra ragione e tradizione, scienza e fede, conservatori e progressisti. Da quando si è cominciato a parlare di "Grandi Narrazioni" abbiamo anche incominciato ad essere perplessi di fronte a un'ondata di fenomeni nuovi. Il postmoderno si è presentato come pluralità di esperienze non facilmente decifrabili. Ma una nuova grande narrazione è anche quella che oppone moderno e postmoderno, dividendo a metà il Novecento. Eppure continuiamo a riportare quello che succede ora a quello che è successo in passato. Gli attuali episodi di razzismo non hanno niente a che fare con le leggi razziali naziste e fasciste degli anni trenta. Si tratta semmai di capire perché il razzismo esiste anche in regimi democratici.
Abbiamo bisogno di potenti ideologie-narrazioni per connettere la varietà dei fenomeni. Secondo Edward M. Forster, l'autore di Casa Howard, il motto del romanziere era «only connect», scoprire nessi fra cose e idee disparate. Oggi non ci riusciamo. E questo nonostante l'impressionante quantità di romanzi con cui l'editoria ci sommerge. Tanti romanzi eppure così poche narrazioni che ci aiutino a connettere? A cosa ci serve tanta narrativa? Mancano i libri che riassumano un mondo, che rappresentino il mondo come totalità di esperienze eterogenee. Forse il Romanzo è esploso, è andato in frantumi in quanto filosofia della vita e immagine di un'intera società. Ma la società stessa sta esplodendo, non è più un intero. I troppi romanzieri non sono più sufficientemente filosofi. Se tutti vogliono scrivere il proprio romanzo, vuol dire che un romanzo che parli di tutti non c'è.