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Ma il peccato originale è lo stesso di oggi

Pier Giorgio Liverani domenica 23 ottobre 2011
La riedizione, a distanza di 40 anni dalla prima, di un libro di Antonello Gerbi, storico ed economista di origini ebraiche, sulla «cognizione del peccato originale» dà a un altro storico, Giuseppe Galasso, l'occasione di fare sul Corriere della sera (domenica 16) un rapido excursus sulla colpa dei Progenitori, ancora oggi ridotta al «molto umano peccato del congiungimento carnale tra uomo e donna» (e invece proprio il Creatore aveva ordinato ad Adamo ed Eva di "moltiplicarsi"!). Galasso chiama in causa diversi scrittori, dei quali nessuno biblista, sostanzialmente convenendo su quella convinzione e attribuisce a un «modesto» filosofo e giurista olandese – Adriaan Beverland, vissuto a cavallo dei secoli XVII e XVIII, che fu anche scrittore assai libertino – il merito di aver avviato la trasformazione del peccato («l'amore naturale») e della pena («il lavoro», ma era, invece, il «sudore della fronte») in elementi costitutivi dell'Umanesimo e del Romanticismo. Questa assurda riabilitazione del peccato fu accettata da Kant e, nei nostri giorni, è stata guardata con interesse da personaggi come il banchiere Raffaele Mattioli e come Alberto Pincherle (Alberto Moravia). Nessuno di tutti costoro ha pensato, piuttosto, che il peccato originale è arrivato tale e quale al giorno d'oggi: la superbia altezzosa, l'orgoglio, la voglia di "diventare come Dio", cioè dèi almeno a se stessi. Così lo definì, allora, uno che se ne intende tuttora, il Serpente. E nessuno è stato sfiorato neanche dall'idea – se non volevano arrivare alla realtà – di Gesù Cristo. Il Quale, caricatosi del peccato dell'intera storia umana e vintane la conseguenza, la morte eterna, ne ha anche chiarito la sostanza e il modo in cui combatterlo. Galasso, a nome, in qualche modo, di tutti i signori qui ricordati, rivendica del peccato «l'alto significato» di «spinta incoercibile ad andare oltre, in meglio o in peggio si vedrà poi». E' la trista ideologia dello scientismo, del tecnicismo, del pluralismo e del relativismo etici e dell'autodeterminazione, progenitori della crisi non solo morale di questo secolo.

CHI È PIÙ IN ALTO?
L'ultimo libro del filosofo Emanuele Severino, di cui il Corriere della sera anticipa (venerdì 21) un lungo brano, mette da parte Dio per affermare che, dopo la morte, l'uomo è «atteso dall'Immenso in cui la Terra che salva e la Gloria consistono». Un «Immenso» che – si suppone – sarebbe una reificazione di Dio e una «Terra che salva» dal sapore romantico, che parrebbe essere l'eternità al modo di Severino e forse anche di Eraclito, il grande filosofo efesino del IV-V secolo a.C., che l'Autore cita: «Sono attesi gli uomini, quando sian morti, da cose che essi non sperano né suppongono». Prima di morire, invece, gli uomini vivrebbero in una «terra ("t" minuscola) che appare nel suo essere isolata dalla verità del destino...» eccetera. Conclusione: «L'uomo è più in alto di Dio» come dice il titolo del Corriere anche se nel testo questo concetto non appare. Nella medesima pagina, però, Armando Torno cerca di spiegarlo, in realtà complicando ulteriormente le cose: secondo Severino, l'eschaton cristiano «assume un senso essenzialmente diverso da quello comune, incominciando dallo stesso significato dell'essere uomo, che appare qualcosa di infinitamennte più in alto di Dio». Posto che l'uomo sia tale, la sua logica dovrebbe essere anch'essa infinita e suggerire, allora, a Severino e a Torno che il problema dell'altezza non può essere risolto a favore dell'uomo, tanto meno riducendo Dio solo a un «Immenso».