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Ma Franco Fortini era troppo poeta per essere marxista (e viceversa)

Alfonso Berardinelli venerdì 25 settembre 2015
Franco Fortini poeta e critico è senza dubbio il più complesso e singolare caso di autoesame incessante, di autocontrollo e perfino di autoinibizione che un autore di versi abbia compiuto nel corso del Novecento italiano. Il compito che si era scelto è stato quello di far coesistere poesia e critica della poesia, ma senza rifiutare la tradizione classica. Sottraendosi al programma avanguardistico di fare tabula rasa svuotando la poesia sia di contenuti comunicabili che di forme ereditate, Fortini viceversa ha usato la poesia per veicolare messaggi etico-politici, esibendo nello stesso tempo un cerimoniale stilistico retoricamente inattuale. Un poeta così puntigliosamente caparbio nella sua fedeltà al marxismo, incluse nel suo progetto un'utopia classicistico-cristiana (analoga a quella del suo maestro Noventa) come correttivo all'illuminismo progressista dominante in tutte le varianti politiche della sinistra. Il suo problema è stato questo: come essere poeta rimanendo marxista e come essere marxista senza rinunciare alla poesia, anzi legittimandola con argomenti diversi da quelli dell'idealismo sublimante e libertario dell'estetica borghese.In un volumetto a cura di Luca Lenzini, che è oggi il più attivo e passionale studioso di Fortini, sono stati riuniti due dei suoi più densi saggi di poetica, uno del 1978 e uno del 1980, con il titolo I confini della poesia (Castelvecchi, pagine 78, euro 9). Migliore porta di accesso alla poesia fortiniana non potrebbe esserci. Se la poesia non vuole tradire la verità storica e sociale e si propone di inglobarla in se stessa, può farlo soltanto se si mostra consapevole dei propri confini: del luogo ristretto e marginale in cui la relega il mercato culturale del capitalismo. In quello spazio, quasi una prigione, sembra possibile all'individuo coltivare molte illusioni e recitare molte libertà, che sono invece vere illusioni e false libertà. La stessa creatività artistica è perciò, secondo Fortini, più un'ideologia indotta dall'aureola mitica dei consumi culturali di massa, che una reale produttività dell'individuo, di fatto impedita. Poeta critico della poesia che non rinuncia alla poesia, Fortini in questi due saggi mette alla prova i suoi lettori con l'ardua stringatezza e con i cortocircuiti intellettualistici della sua prosa. In una sola pagina o in uno stesso tour de force argomentativo si possono incontrare Lukács, Jakobson, Proust, Adorno, san Giovanni della Croce e Nietzsche, Lenin e Simone Weil. Troppi autori da conciliare. Nessuno scrittore intellettuale si è fatto la vita difficile come Fortini. Nessuno la rende così difficile a chi lo legge.