Carla Benedetti è preoccupatissima per l'imminenza dell'olocausto ambientale, e in Disumane lettere (Laterza, pp. 216, euro 18) chiama alla mobilitazione le humanities affinché promuovano un allargamento mentale e culturale che controbilanci il razionalismo scientista che, a suo modesto avviso, ci sta precipitando verso la catastrofe. Benedetti sembra non ricordare che la Groenlandia si chiama così perché, prima di essere ricoperta dai ghiacci, era la «terra verde», e che i catastrofismi del Club di Roma (1972) sono stati smentiti dai fatti e fanno sorridere anche il premio Nobel per l'economia Amartya Sen. Insomma, le ere geologiche hanno cause e ritmi che sfuggono al controllo dell'uomo e, del resto, i dinosauri sono scomparsi ma non ne sentiamo la mancanza. Ciò non significa che non si debba «custodire» il pianeta, dato che l'uomo è stato collocato nel giardino di Eden «affinché lo coltivasse» e, appunto, «lo custodisse» (Genesi 2, 15). Ma dovrebbe far riflettere il fatto che, nonostante l'inquinamento, lo sperpero delle risorse, i pesticidi, il cibo geneticamente modificato, la speranza di vita in Italia nel 1960 era di 69 anni, mentre nel 2008 era di 82; nello stesso periodo, in Angola, è passata da 33 a 47 anni (ancora troppo pochi). Ma che cosa intende Benedetti per humanities, cioè per i saperi che hanno per oggetto l'uomo? Intende «la Letteratura, la Filosofia, l'Arte, il Pensiero politico, la Rete, i Media, il Marketing culturale, eccetera». E la Teologia? E la Metafisica che non rientra nella Filosofia dell'autrice? Così lobotomizzata, Carla Benedetti si impalca in una sintesi delle citate humanities che finalmente non siano soltanto antropocentriche, bensì considerino l'uomo inserito nel cosmo. Impresa troppo vasta per una donna sola che sente tutto il Mondo sulle sue gracili spalle (complesso di Atlante). Infatti la trattazione dei sette capitoli che studiano altrettante coppie di forze amputanti e rigeneranti è estremamente deludente: si apprende che Gadda e Leopardi avevano già previsto tutto e l'autore di riferimento di Benedetti è Antonio Moresco che, con lei, fu tra i fondatori di «Nazione Indiana», il blog collettivo a cui si attaglia la definizione di Malraux (citata anche da Flaiano), secondo cui «in ogni minoranza intelligente c'è una maggioranza di imbecilli». Moresco e Benedetti lasciarono «Nazione Indiana» nel 2005, non è chiaro se per uno strappo di maggioranza o di minoranza. Queste le coppie di forze analizzate (il primo termine è amputante, il secondo è rigenerante): mondo a sfondo chiuso/mondo a sfondo aperto; apocalisse/emergenza; necessità storica/contingenza; morte/nascita; collettivo/singolare; quantità/qualità; orizzontale/verticale. Ci si aspetterebbe una trattazione innervata di pensiero creativo, di sintesi interdisciplinare, di slanci poetici e incursioni musicali, che collochino l'uomo nel cosmo, come da programma. Invece ogni capitolo è più che altro imbastito di citazioni letterarie, attinte da autori non memorabili. Il fatto è che Carla Benedetti appare rinchiusa nel razionalismo positivista che rimprovera alla scienza, dal quale ritiene di poter riuscire con un atto di fede: «Ciò che è stato amputato non si può reinnestare. Si può solo rigenerare come i rami di una pianta potata o la coda spezzata di una lucertola. Ma le divisioni specializzanti non permettono rigenerazione. Occorre forare quelle paratie, stare in zone germinali dove le possibilità si riaprono totalmente e in cui le cellule del pensiero possono ancora diventare tutto: cuore, muscolo, cristallino, ossa». Insomma, un atto di fede nelle cellule staminali della cultura, di cui nel testo non troviamo traccia. E così un libro che prometteva sconfinate avventure dell'intelligenza, finisce per rivelarsi sconcertantemente futile.