Si parla da tempo di "ludopatia" (anche se questo giornale usa giustamente un altro termine: "azzardopatia"). È giusto chiedersi da dove questa provenga, e qui vale la pena coniare un neologismo, che è "ludocrazia". Nel celebre Homo Ludens (Huizinga) appare ben delucidato come il gioco, inteso quale insieme di regole che stabiliscono un confronto, sia alla base di quasi ogni nostra attività. Con il gioco, inoltre, si "abbellisce" ciò che diversamente sarebbe brutale pragma. Ma in un passaggio molto sottile Huizinga ci ricorda che il gioco non esclude il trucco, purché questo… non si sveli. Viviamo dunque in un sofisticato casinò dove tutto è truccato, e ne siamo pure consapevoli. Siamo consapevoli che le possibilità di vincere una cifra significativa con un "gratta e vinci" sono praticamente nulle, e ci viene detto, per quanto a caratteri piccolissimi, dall'oggetto stesso. Ecco la "ludocrazia" che si diverte (e ci diverte) vagheggiando promesse che non può mantenere ma che, statisticamente, nemmeno possono essere del tutto escluse. Ed ecco la proposta di inserire negli scontrini fiscali codici da giocare, quasi che l'elemento del gioco fosse un plusvalore che rende più attraente un semplice passaggio burocratico. In inglese, "to play" significa sia "recitare" che "giocare". E la "ludocrazia" è l'immenso baraccone in cui tutti ci divertiamo allucinati.