A noi figli, negli anni 60 i genitori raccontavano ancora una guerra che avevano fatto o sperimentato nei bombardamenti, nella paura, nella povertà. Ascoltavamo con incredulità: la nostra Italia era in pace, il cibo abbondante, e loro ci raccontavano di tessere, di lunghe code per ottenere un chilo di zucchero. Ci parlavano di fame, ma noi già crescevamo a omogeneizzati e biscotti Nipiol. Dicevano di libertà negata, di censura, di leggi razziali, e noi non capivamo come fosse accaduto. «Ma non vi siete accorti, di cosa stava succedendo?», chiedevamo. Alcuni sì, ci rispondevano, ma erano fuggiti o erano diventati, più tardi, partigiani. La maggioranza, no. Pensava alla sua famiglia, alla sua privata vita, e non vedeva l'onda che si alzava.
Domandavamo ancora, non riuscendo a capacitarci: com'è stato possibile? Forse semplicemente molta gente tranquilla mentre il Paese si avvicinava alla tragedia taceva, non voleva credere, o non capiva. Alla vigilia della guerra, nelle sere d'estate, certo i ragazzi andavano a ballare, e si discuteva di calcio. Come se non potesse essere vera, la tempesta alle porte.
Di padri in figli, in due generazioni si può dimenticare. Le parole di chi c'era paiono ormai quasi balbettii di vecchi. Sbiadita la memoria, e il sangue, i figli dei figli non ricordano, non sanno.