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Lo stadio detta legge: così la vita diventa metafora del calcio

Mauro Berruto mercoledì 14 marzo 2018
Sarebbe bello poter parlare oggi di sport come è successo, in questo spazio, in tante altre occasioni. Sarebbe bello, ancora una volta, raccontare una storia, tirarne fuori un significato, aspettarsi un'ispirazione. Invece, in questa settimana, la cosa migliore sarebbe il silenzio. Un silenzio di sgomento e di riflessione, che ci metta di fronte all'incastro fra due situazioni paradossali, estreme, diametralmente opposte. Da una parte il nodo allo stomaco e gli occhi lucidi per lo struggente addio che il calcio (nella sua giornata di ritorno alla vita) e i suoi tifosi (nella giornata in cui hanno ripreso contatto con quella vita) hanno tributato a Davide Astori, il capitano della Fiorentina che non è più qui. Dall'altra le immagini di Ivan Savvidis, proprietario del Paok Salonicco che entra in campo e si dirige minaccioso verso l'arbitro mostrando una pistola nella fondina attaccata alla sua cintura, perché alla sua squadra è stato annullato un goal all'89esimo minuto nel match clou del campionato di serie A greco, contro l'Aek di Atene.
Si è fermato il calcio italiano per ricordare Astori, si è fermato il calcio greco, su proposta di Alexis Tsipras, per condannare e riflettere su questo gesto dissennatamente folle. Cosa c'è in mezzo tra questo zenith e questo nadir, poli opposti dello stesso orizzonte? Probabilmente la definitiva smentita di una leggenda metropolitana, ovvero che il calcio sia una metafora della vita. Perché questo status di "metafora", ovvero qualcosa di vagamente teorico, immateriale, spirituale mai come in questa settimana si dissolve come neve al primo sole della primavera. Non c'è niente di teorico nelle lacrime dello stadio Artemio Franchi di Firenze. C'è un dolore molto concreto, fisico, visibile. C'è uno strazio oggettivo, un urlo che resta in gola, c'è carne lacerata. Non c'è niente di teorico neppure a Salonicco, nelle guardie del corpo che spingono via persone come fossero birilli, nei volti spaventati dei calciatori, nello sguardo arrogante e trasfigurato di un uomo che mette la mano sulla pistola mentre si avvicina minacciosamente al giudice di gara.
Nulla di teorico a Firenze, tanto meno a Salonicco. Anzi, un realismo brutale, un ping-pong tra rabbia (il sentimento che domina questo inizio degli anni duemila) paura e dolore. Rabbia, paura, dolore sono emozioni primarie, quel tipo di emozioni che non hanno bisogno di essere spiegate dal linguaggio o dal contesto, per essere riconosciute hanno bisogno solo del linguaggio corporeo. E allora scorrere immagini che mostrano migliaia di persone con gli occhi lucidi a Firenze e poi, poche ore dopo, guardare esterrefatti occhi pieni di terrore, di violenza minacciata o subita in un contesto così sfacciatamente pubblico ci costringe a oscillare fra sentimenti primari che proprio il calcio, in questi giorni, ci costringe a fronteggiare. Che ci piaccia oppure no, non possiamo più scegliere.
Vengono alla mente due filosofi del secolo scorso, Jean Paul Sartre che letteralmente sosteneva l'ipotesi che il calcio fosse «metafora della vita» paragonando le sue esperienze da calciatore per le strade di Parigi come una prima palestra di democrazia. Oppure a un altro esistenzialista molto vicino a Sartre, come Albert Camus che descriveva il suo rapporto con il mondo del pallone così: «Tutto ciò che so riguardo a doveri e moralità lo devo al calcio».
Certo, anche alla luce di quelle parole, il secolo scorso sembra mille secoli fa. Questo primo quarto del nuovo millennio ci sta insegnando che il "gioco" è andato oltre, che quello che si genera in un luogo sempre più importante chiamato "Stadio" ha sempre più a che fare con la vita reale, con tutti noi, tifosi o no, sportivi o no, appassionati o no. Lo "Stadio" nell'antichità classica indicava un'unità di misura di lunghezza. Ma "stadio" indica anche un momento di un processo, di un'evoluzione, di uno sviluppo. Uno stato dell'arte. Quello che succede lì dentro è sempre più mostruosamente importante, è sempre più predittivo di qualcosa che succede fuori, è sempre più un indicatore di misura. Verrebbe da parafrasare clamorosamente Sartre, sostenendo che è la vita, ormai, ad essere diventata una perfetta metafora del calcio.