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Lo schermo migrante di Lamine, che torna a casa

Mauro Armanino martedì 31 gennaio 2017
L'ha comprato in Algeria e non vuole separarsene per nulla al mondo. Uno schermo con treppiede metallico rivestito di cartone per vedere le partite di calcio. Torna con quello e un sacco leggero che sembra sfiorare il mondo. Lamine era elettricista prima di passare la frontiera col Mali e l'Algeria dove credeva di trovare lavoro. Lui e Ali, giovani dello stesso quartiere e amici d'infanzia, in Guinea avevano smarrito il futuro.
I soliti amici che assicurano il paradiso a portata di mano e il lavoro nei cantieri edili di Algeri li avevano delusi. Derubati dai ribelli e poi venduti a un connazionale, avevano raggiunto l'Algeria dopo aver pagato la liberazione in contanti, mandati da casa. Tutto ben organizzato con tanto di agenzia di viaggi e destinazioni accessibili per l'Europa, l'Algeria e financo gli Stati Uniti d'America del muro col Messico. L'agenzia informa i gruppi ribelli dell'arrivo di mercanzia migrante e tutto fila liscio fino alla prossima tappa. La vendita termina col connazionale che li lascerà liberi di continuare il viaggio dietro il pagamento di un montante pena la tortura.
Così passano il tempo ad Algeri tra insulti, lavori occasionali e alla fine nessun pagamento, per mancanza di documenti. Assaltano Ali e lo lasciano mezzo morto lungo la strada. La vita dei migranti ha smesso di contare. L'Europa non solo esternalizza le frontiere, ma le arma e le trasforma in campi di deposito per indesiderati. Ali arriva col braccio ingessato e per un po' non potrà guidare il camion, lui che da apprendista ha preso la patente di circolazione. Torna ingessato, coi calzini e le ciabatte da spiaggia. Ha venduto le scarpe per continuare il viaggio fino ad Agadez e poi a Niamey. Quanto a Lamine si sposta con lo schermo sottobraccio neanche fosse l'unico trofeo da viaggio da esibire. Potrà sbarcare il lunario proiettando sullo schermo gigante gli interminabili campionati di calcio d'Europa. Inventa così una soluzione alternativa al mestiere di elettricista senza lavoro per i troppi tagli di luce nel suo Paese. I due messi insieme formano un riassunto di odissea migrante che si giustifica con le politiche di esclusione dei poveri.
Lazare è invece rifugiato ormai da anni dalla Repubblica Centrafricana. Fabbrica bambole di pezza per i turisti che sono spariti nel nulla. Col filo di ferro come telaio e la collaborazione della moglie mettono sul mercato modelli di bambole sempre più piccole. Con o senza borsa da passeggio, col bimbo sul dorso oppure coi capelli raccolti da un foulard.
Gli ingredienti ci sono tutti, mancano solo gli acquirenti, spazzati via dal timore terrorista e le ribellioni tuareg. Erano scappati col precedente colpo di stato nel loro Paese e nel Niger hanno trovato rifugio, ma non lavoro, in genere riservato ai locali.
C'è da pagare l'affitto da ormai tre mesi, la retta scolastica per la figlia e il cibo necessario per prendere le medicine di cui hanno bisogno per vivere. Le bambole di pezza sono esposte senza troppa fortuna al Grand Hotel di Niamey per i distratti e facoltosi viaggiatori dell'umanitario. Lui le mette una accanto all'altra neanche fosse una sfilata di moda nelle Parigi d'altri tempi. Rimpiange l'epoca d'oro del turismo di massa, quando persino le bambole erano più alte di statura.
Niamey, gennaio 2017