A 71 anni Borges scrisse: «Alla mia età si dovrebbe essere consapevoli dei propri limiti». Da parte mia sono consapevole dell’innumerevole elenco di cose che non so fare, ma ho il dubbio che i miei limiti non si trovino in quel catalogo. Stanno invece all’interno delle cose che credo di saper praticare, perciò nella scrittura. So per esempio di non saper scrivere un poema. Per aggiungere un altro esempio ecco che le mie frasi sono brevi e non posso allungarle oltre il fiato necessario a pronunciarle. Finirebbero in debito di ossigeno. Questi e altri impedimenti potrebbero costituire uno stile, ma nel mio caso rimangono dei limiti. Al di fuori del mio ristretto ambito mi accorgo di un’epoca inconsapevole di limiti, e insofferente. Si compiace di ambizioni e di affermazioni personali. Il successo è considerato una conferma, mentre è solo il participio passato del verbo succedere. L’epidemia stabilì un elenco di limiti. Lo impose la severa decimazione e la scarsezza di strutture sanitarie a ricezione limitata. Furono a lungo impoverite dai tagli di spesa, da governi di fiato corto e capacità di previsione zero. Non per virtù ma per necessità si è ricostituito un sentimento di appartenenza a una collettività aderendo a restrizioni e rinunce. Indossare la protezione è diventato un atto civico oltre che di cautela personale. Non considero l’epidemia uno stato di eccezione, ma l’avvento di una nuova normalità. Contare sulla restaurazione di un’epoca spensierata è ipotesi che scarto. Preferisco frequentare la scuola dei limiti nuovi.
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