Ti ho sentita arrivare, improvvisa, domenica pomeriggio. Erano forse le tre. Stavo leggendo, sdraiata sul letto, la porta del balcone aperta in una giornata quasi tiepida, quando di colpo ho avvertito uno scroscio forte: come di una fonte che, trattenuta, si apra finalmente.
Piove, mi sono detta, ma non con l’indifferenza con cui si accoglie ciò che è abituale. Con una contentezza diversa. Da tanti mesi qui al Nord piove avaramente, il Po dal ponte sull’autostrada a Casale Monferrato fa pena, quasi, un rigagnolo che smarrisce la sua strada nella distesa bianca della ghiaia. Non piove sulla pianura e, quando anche piove, poca roba, gocce.
Questa domenica, al mattino c’era il sole. Invece eccola, dopo pranzo, inattesa, la pioggia: e ho smesso di leggere, e ho chiuso gli occhi – quanto mi è sembrato dolce quel rumore. Dalla magnolia del cortile e da un’aiuola il profumo della terra bagnata, che ogni volta, in primavera, mi commuove. (Mi commuove, perché? Forse è memoria ancestrale, ereditata da avi contadini? La pioggia di marzo che bagna i campi, che fa spuntare i germogli di un verde chiaro, bambino. Memoria antica della pioggia, che prometteva pane).
I gatti di casa, svegliati da quel leggero rumore, hanno spalancato gli occhi verdi e hanno annusato l’aria. Allora l’ho annusata profondamente anche io: com’era buona.
Per tutta la vita la pioggia è stata per noi una cosa normale, frequente, per qualcuno anche uggiosa – non per me, che da ragazza me ne andavo in giro senza ombrello, felice delle gocce che mi scivolavano sulla faccia. Ma solo ora capisco quanto la pioggia sia preziosa.
L’avevo intuito anni fa, in un settembre in Sicilia, verso Trapani, che cosa è l’acqua. Dopo un’estate siccitosa la campagna completamente riarsa, screpolata come la faccia di una vecchia la terra: che oasi, invece, i giardini delle case, verdeggianti, rigogliosi, le bouganville grondanti di fiori viola. Era lo stesso terreno, ma irrigato. Che miracolo e che dono, avevo pensato, la pioggia, una delle poche cose che ancora non sappiamo governare, che non ci sappiamo dare da soli.
Allora mi ero guardata indietro e avevo compreso le processioni del mondo contadino contro la siccità: il prete con la Croce davanti, e dietro le donne con grappoli di bambini, e poi i vecchi, e infine gli uomini, a capo chino.
Ho immaginato una di quelle processioni, sotto a un cielo terso e caldo di maggio, ho come visto la nuvola di polvere che si sollevava dai passi della gente, dalla terra asciutta. Ho immaginato la sete degli uccelli, delle volpi, di tutte le creature dei campi, e ne ho avuto pena. (In Monferrato la scorsa estate la siccità era tale che da chissà dove è arrivato, una sera, tra le colline un piccolo branco di lupi. Un vicino li ha fotografati. Mai visti i lupi, da quelle parti. Fanno paura i lupi, tuttavia quel branco cercava solo una roggia per bere; e anche del loro passo lento da predatori stanchi, ho avuto pena).
E dunque ora so che grazia è la pioggia, e il suo scroscio nel silenzio di una domenica mi è parso una carezza. Non è durata molto, però cadeva forte, lavava via l’aria viziata, l’aria riempiva i polmoni. E i colori? L’erba opaca delle aiuole ravvivata, i ciclamini sul balcone illuminati di rosa.
Sono uscita col cane e sono arrivata fino al Parco Sempione, le forsizie splendevano di oro. Essere contenta semplicemente del profumo dell’erba, quando piove. Sono tornata, zitta, in un silenzio che era quasi preghiera.
© riproduzione riservata