Candidarsi come capilista alle elezioni europee per portare voti al proprio partito e misurare il proprio consenso personale, ma senza avere la benché minima intenzione di traslocare a Strasburgo. La questione si ripropone ogni volta che si avvicina il rinnovo dell’Europarlamento. Beninteso, l’utilizzo strumentale delle candidature europee non riguarda soltanto i leader e i primi posti in lista, come dimostra un’esperienza ormai più che quarantennale. Peraltro, l’incompatibilità tra il mandato parlamentare europeo e quello nazionale è stata introdotta solo nel 2004 e questa circostanza ha reso ancora più spinosa la vicenda delle candidature che – salvo qualche rara eccezione – si possono legittimamente definire “acchiappavoti”. Vicenda che assume la massima rilevanza quando i leader di partito scendono in campo come teste di lista in tutt’e cinque le circoscrizioni previste in Italia per le elezioni europee. Un’opzione praticata finora quasi esclusivamente sul versante del centro-destra, almeno a considerare le formazioni numericamente più consistenti. Partendo dall’anno dell’incompatibilità, nel 2004 fecero l’en plein Berlusconi, Fini, Bossi e Bertinotti (gli ultimi due, però, a Strasburgo andarono davvero). Nel 2009 toccò a Bossi e Berlusconi. Nel 2014, con Berlusconi fuori gioco per problemi di natura giudiziaria, furono Salvini e Meloni a fare la cinquina, ripetendosi nel 2019, anno che vide anche il ritorno del Cavaliere. E siamo all’attualità, con la premier e la segretaria del Pd, Elly Schlein, che su opposti versanti stanno valutando il da farsi.
La questione di cui stiamo parlando, tuttavia, non può essere ridotta a un affare interno ai partiti e agli schieramenti. Ha una dimensione istituzionale che riguarda il rapporto con gli elettori. Nessuna norma in vigore vieta a un leader di candidarsi in tutte le circoscrizioni e quindi chi lo fa non commette un illecito. Ma, in caso di elezione, dovrà dimettersi e i voti ricevuti porteranno a Strasburgo altri candidati, in base all’andamento delle preferenze nelle diverse circoscrizioni. Come abbiamo visto i precedenti non mancano, questo però non riduce l’effetto distorsivo. Si potrà obiettare che la possibilità del voto di preferenza consentirebbe in teoria all’elettore di non scegliere il candidato “per finta”. Ma non nascondiamoci dietro un dito: l’offerta politica è congegnata in modo tale da indirizzare i consensi in una determinata direzione e il posizionamento in lista svolge un ruolo decisivo. Altrimenti non si spiegherebbero le battaglie interne ai partiti per un posto strategicamente collocato. Del resto, se un leader si candida in tutte le circoscrizioni per un ruolo che non andrà a svolgere, il consenso concentrato intorno alla sua persona non è un effetto collaterale, ma l’obiettivo stesso dell’operazione.
Sono poi da considerare anche le conseguenze sulla parità di genere. La legge stabilisce che i primi due candidati in lista siano di sesso diverso e la situazione che si potrebbe configurare nel voto di giugno è veramente paradossale. Se alla fine le due leader delle formazioni attualmente più rappresentative decidessero di concorrere e di farlo su tutte le piazze, finirebbero indirettamente con il penalizzare le candidature femminili dei rispettivi partiti. Tutti i secondi in lista, infatti, sarebbero uomini.
© riproduzione riservata