Dalla collaborazione dello scrittore Peter Handke con Wim Wenders è nato uno dei più bei film dell'ultimo scorcio del XX secolo: Il cielo sopra Berlino. Il prologo è una sorta di ninnananna che ci ricorda la musica primordiale di quelle domande che abitarono la nostra infanzia. Sono interrogativi sconcertanti e di un acume lampante. Potrebbero essere posti da un grande poeta o da un filosofo capace di sostenere il peso intero del pensiero con l'insostenibile leggerezza di un aforisma. Ma sono accessibili a ogni bambino che cerca a tastoni nel suo stesso enigma. Sono insomma domande inventate un giorno da chiunque di noi. Domande come: «Perché io sono io e non tu? Perché io sono qui, e non là? Quando è cominciato il tempo, e dove termina lo spazio? Questa vita sotto il sole non sarà soltanto un sogno?». Quando, più tardi, siamo divenuti dei ripetitori sonnambuli di risposte pronte, riempiti di saperi, previsioni e mappe, è importante che almeno ricordiamo a noi stessi che ci fu un tempo in cui le domande erano il contatto (cosciente, folgorante, disarmato, arreso) con la vita più grande di noi, la vita aperta, non predeterminata. E chissà che questa memoria non ci stimoli a ricominciare, come se ogni domanda fosse una possibilità di nascere.