Abbiamo debiti culturali verso persone che non abbiamo mai incontrato ma che hanno lavorato per noi, per farci conoscere autori, testi, idee che non avremmo mai affrontato anche per semplici e insormontabili ragioni linguistiche. Prendiamo Guerra e pace. Il catalogo del Servizio bibliotecario nazionale offre 915 voci sul capolavoro di Tolstoj e indica una molteplicità di traduttori. La mia generazione, per esempio, è affezionata alla traduzione di Eridano Bazzarelli (1960), ma prima c'era la traduzione di Enrichetta Carafa Capecelatro duchessa d'Andria. E chi si ricorda di A. Osimo Muggia, che tradusse Tolstoj nel 1929? Eppure, senza il lavoro di questi e altri traduttori, il cui nome è spesso scritto in piccolo dietro il frontespizio, Guerra e pace non sarebbe entrato nel nostro immaginario.Lunedì scorso si è spenta Julia Dobrovolskaja, instancabile tessitrice di rapporti culturali tra Italia e Russia, che viveva a Milano dal 1982. Basti ricordare il suo Grande dizionario russo-italiano e italiano russo, pubblicato da Hoepli nel 2001, strumento di lavoro indispensabile per i nostri slavisti. Grande personaggio, la Dobrovolskaja, che l'anno prossimo avrebbe compiuto i cento anni. Studiò Filologia germanica a Leningrado sotto la guida di Vladimir Propp, celebre per le sue ricerche sulla morfologia della fiaba. Padroneggiava l'inglese, il tedesco, il francese, lo spagnolo e l'italiano, e nel 1938 seguì come interprete i volontari russi nella Guerra civile spagnola, dove imparò che il paradiso promesso dai marxisti era contiguo alla tragedia. Si adoperò per smentire la leggenda che, per via del «caschetto di capelli biondi», la vorrebbe ispiratrice del personaggio di Maria in Per chi suona la campana di Ernst Hemingway: in realtà, Maria rivelerebbe i tratti di Martha Gellborn, o della catalana Maria Sans. Tornata in patria, nel 1944 fu arrestata come «criminale» e conobbe «le tetre segrete della Lubjanka». Condannata a tre anni di colonia penale, fu però amnistiata nel 1945. Da allora si dedicò allo studio e all'insegnamento, lavorando anche per l'Agenzia Tass, e in Italia ebbe la docenza nelle Università di Venezia, Trieste e Milano. Tradusse in russo Sciascia, Moravia, Parise, De Sanctis, Rodari e altri. Come interprete accompagnò in viaggi in Russia Manzù, Guttuso (col quale ruppe l'amicizia per la di lui tetragona ortodossia comunista), la Callas, Gregotti, Abbado, Brandi... Nel 1997, Marcello Venturi la raccontò nel romanzo Via Gorkij 8, interno 106 (l'indirizzo di Julia a Mosca), e lei stessa nel 2006 pubblicò le sue «Memorie o quasi» con il titolo Post Scriptum. Avendo sempre lavorato come freelance, non ebbe riconoscimenti pensionistici, e solo negli ultimi anni, per iniziativa del Pen Club Italia, poté beneficiare del vitalizio della Legge Bacchelli. Per la sua conoscenza delle lingue e per i frequenti contatti con scrittori stranieri era sospettata di possibile tradimento. Fu arrestata quando un delatore denunciò i suoi «contatti» con un militare americano ventenne, che in realtà «mi aveva chiesto informazioni su una strada, dopo essersi rivolto ad altri che non capivano la sua lingua». Nella sentenza si legge: «Per non aver commesso il fatto, ma tenuto conto che si trovava in condizione di poterlo commettere, le si fa carico dell'articolo 7, comma 35» (da tre a cinque anni di gulag). Capito? Condannata perché avrebbe potuto commettere un reato. Chiunque di noi, dunque, avrebbe potuto finire in un gulag: come si può dimostrare di non essere delinquenti potenziali? Eppure questo orrore è ormai stato rimosso. Anche Solzenicyn è quasi dimenticato e il grandissimo Milan Kundera non riceverà il Nobel mai più. Un pensiero a Julia Dobrovolskaja ci rinfreschi la memoria.