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Le “supercazzole” Viaggio filosofico nel nonsense

Cesare Cavalleri mercoledì 17 ottobre 2018
Maurizio Ferraris, professore di Filosofia teoretica nell'Università di Torino, ha scritto un libro molto divertente, filosofico e di intrattenimento, intitolato Intorno agli unicorni (il Mulino, pagine 152, euro 12). Decisivo è il sottotitolo: Supercazzole, ornitorinchi e ircocervi. Protagonista è la "supercàzzola", accolta nello Zingarelli 2015 con la seguente definizione: «Parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l'interlocutore». L'origine è nel film Amici miei, di Mario Monicelli, in cui Ugo Tognazzi, nei panni del conte Mascetti, per schivare una multa tiene al vigile un esilarante discorso a base di tarapia tapioco, pastène soppaltate, come se fosse antani, e altre strampalate amenità. Del resto, esperto di celebri supercàzzole era Fosco Maraini, etnologo, orientalista, scrittore e poeta, padre della Dacia scrittrice, autore dell'immortale poesia metasemantica «il Lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta». Va detto che anche padre Dante, con «Pape Satàn, pape Satàn aleppe», supercazzolava volentieri, e gli sproloqui dell'Azzeccagarbugli e di don Ferrante, che altro sono se non supercazzole manzoniane? Ferraris si spinge a considerare supercazzola monumentale il nicciano Così parlò Zarathustra, memore forse della Corazzata Potëmkin apostrofata da Paolo Villaggio. Ma Maurizio Ferraris è un filosofo teoretico, e la supercazzola è una cosa seria. Fondamentale è la tripartizione della filosofia, sulla quale Ferraris insiste: l'ontologia, quello che c'è, con o senza sapere; l'epistemologia, quello che sappiamo o crediamo di sapere; la tecnologia, quello che facciamo, con o senza sapere. «Questa tripartizione – spiega Ferraris – è importante perché, se (come Parmenide) identificassimo l'ontologia con l'epistemologia, il solo fatto di avere il concetto di una cosa ne comporterebbe l'esistenza; e se (come Kant) identificassimo l'epistemologia con la tecnologia, il solo fatto di adoperare una parola comporterebbe che questa parola abbia un senso, e (per la confusione tra ontologia ed epistemologia) designi qualcosa di esistente». Fin da ora si intuisce che il ragionamento di Ferraris tende al realismo, contro ogni astrazione idealistica. Plotino: «In verità, la Forma è traccia dell'Informe, perché è Questo che genera la Forma». Detto altrimenti: il senso emerge dal nonsenso, e la supercazzola si affaccia «sull'abisso di insensatezza da cui emerge il senso». Del resto, la lingua insensata degli infanti non è all'origine dell'articolazione del linguaggio che caratterizza (o dovrebbe caratterizzare) l'età adulta? C'è un'altra variante tripartita che Ferraris, con Peirce, preferisce alle dodici categorie kantiane: «la primità, quello che c'è; la secondità, quello che sappiamo; la terzietà, quello che facciamo». La primità è dunque «l'ontologia, il cui carattere distintivo è l'alternativa tra esistente e inesistente. L'ontologia è fatta di individui, non di oggetti. Un conto è il quod sit, il fatto che qualcosa sia, un altro è il quid sit, il saper che cosa sia l'individuo che abbiamo di fronte». La secondità è l'epistemologia che tematizza la verità o la falsità, il sapere e il non sapere; siccome il dire qualcosa a proposito di qualcosa viene necessariamente dopo quel qualcosa, da qui la secondità. La terzietà, costituendo la mediazione tra ontologia ed epistemologia, è la tecnologia e ha quali valori la riuscita o il fallimento. Pur da questi cenni, si intuisce lo spessore dei concetti che Ferraris inanella non con pedanteria accademica, bensì scegliendo esempi dagli arboriani Quelli della notte («Lo diceva Neruda che di giorno si suda (ma la notte no!) rispondeva Picasso io di giorno mi scasso ma la notte no!») e da altre stravaganze che girano intorno alle supercazzole. A buon conto, l'unicorno non esiste, mentre l'ornitorinco sì. Il libro è giustamente dedicato a Umberto Eco, «sine qua non», instancabile creatore e divulgatore di supercazzole intenzionali.