Noi pensiamo gli stati d’animo in forma astratta sino a quando non arriva una storia a restituircene il senso, il colore, il sapore, riportando quella forma psicologica pensata solo in teoria invece a terra, contenuta tra le sponde della realtà. Sono le singole vicende di vita a dirci cosa siano davvero gioia e dolore, e ciascuna vicenda, se avesse una traduzione grafica, sarebbe una linea. Siamo linee era il titolo di un bellissimo libro dell’antropologo Tim Ingold uscito pochi anni fa. Linee siamo noi, le nostre esistenze, argomentava Ingold nel suo saggio, parafrasandone il titolo. Ma linee sono anche le nostre emozioni: una linea per esempio circolare nel caso della gioia, oppure retta o poligonale nel caso di stati d’animo più complessi e stratificati. Il dolore invece è una linea frastagliata, scomposta, resa ondulata da piccole curve sussultorie come si trattasse del grafico di un elettrocardiogramma. Perché più di altri stati dell’animo, il dolore conosce e fa conoscere andate e ritorni del pensiero, spirali della memoria, intermittenze della consapevolezza. Anche a questo ho pensato leggendo l’ultimo libro breve e molto denso scritto da Dario Voltolini (Invernale, La nave di Teseo, pagine 140, euro 17,00). Un libro le cui pagine possiedono il talento di saper restituire l’enigma del dolore: quell’intermittenza per cui esso da sordo si fa acuto, da percepibile e nitido, invece per lunghe fasi non visibile, e perciò non commensurabile. A un male grave e via via più incurabile che affligga una persona a noi molto cara, intima, possiamo guardare con lucido coraggio, o invece nascondendo la triste eventualità della fine della persona a noi stessi per primi (prima ancora che a lei). Dario Voltolini è molto bravo nel descrivere entrambe le condizioni, ovvero i diversi segmenti in successione della linea frastagliata: lo sguardo diretto e limpido rivolto all’ipotesi della morte, e la fuga da quella stessa ipotesi. Il coraggio e la ritrosia. L’apertura al dolore, o viceversa la difesa dallo sconquasso che comporta. Leggendo questo romanzo breve si ha davvero la sensazione di scandagliare quel particolare genere di dolore, tenace ma latente, che ci assedia quando siamo invasi da un’apprensione così. Frastagliata la linea, quando pur di stare accanto alla persona e alle cure che intraprende le si fa compagnia in ospedale (sia in patria che all’estero) ma poco tempo dopo, durante una breve vacanza per ristorarsi, ecco ci si sente invadere da una furia distruttiva che è sintomo di irrespirabilità della tristezza provata (con una rovesciata di pallone da calcio il protagonista di Invernale fa venir giù le strutture di un giardino intero). Segmentata, la linea, per come a scambi scabri ma intensi con le persone fa da contrappeso un grande silenzio, fondo, senza brecce di possibilità da offrire alle parole. La traiettoria di un dolore è costellata di inciampi, piccole cesure, latenze, oblii, ripensamenti, sentimenti, fughe dai sentimenti. Uno scrittore, grazie alla melodia sincopata di una lingua sorprendente e originale, sa farcelo vedere e ce lo racconta. Intanto restituendoci il senso di particolare ricchezza che sta insito in ogni percorso, anche il più accidentato, frastagliato, doloroso.
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