Il numero d’autunno della rivista “K”, curata da Nadia Terranova e Christian Rocca, ha per tema la casa. Di case si parla di continuo, forse più ancora da quando la pandemia ci ha costretti a lungo dentro i nostri appartamenti (o a star chiusi in altro genere di dimore, magari vicine alla Natura, sempre e comunque, case). Da quando stare in casa è diventato modus vivendi privilegiato, quello che troppe volte più ci viene naturale. Di case si parla, eccome: e le si cerca, le si affitta, le si acquista quando possibile. Senza dubbio, allora, è interessante considerare la questione anche dal punto di vista della letteratura: sviscerare il racconto delle nostre abitazioni nel loro essere luoghi dell’anima, oltre che contenitori del corpo. Spazi nei quali tante pulsioni, emozioni, defezioni trovano convergenza, e forma di parole, definizione, e di lì, svolta. Scrittrici, scrittori, poeti esprimono il loro sentimento della casa, e intanto lo trasfigurano e lo reinventano. Dei versi di Giorgio Ghiotti circoscrivono un risvolto importante, quando recitano: “Se avranno memoria, e se sapranno dire / con loro indecifrabili alfabeti/ di noi le case la nostra traversata”. Già: quanto resta di noi, tra le mura delle case che abbiamo abitato? Quanto pareti, angoli, spazi e anfratti assorbono di tutto quanto là dentro ci accade? e quanto, dei “nostri” posti rimane impresso nelle nostre sensibilità, lasciando la sua impronta durevole incastonata nelle storie delle nostre vite? L’osmosi tra noi e i luoghi è flusso di corrente denso, carsico: come che sia, sempre profondo. Ma se la nostra memoria rincorre luoghi del passato, forse quegli stessi luoghi ricordano, trattengono qualcosa di noi?
Le nostre con le case sono (anche) storie d’amore e disamore, a queste assomigliano per intensità, per una buona dose di struggimento nei distacchi e nella nostalgia, per una certa libertà di non pensare, ovvero non dover ricordare in modo obbligato. Perché se a certe case torniamo di continuo nel pensiero, ad altre non rivolgiamo più la mente, mai. Le prime, le case ricordate, riaffiorano nella memoria, fanno capolino nei nostri sogni, persino. Immagini di certe luci durante la giornata, di corridoi, finestre, fughe di stanze, ecco continuano a inseguirci nei pensieri, e a farlo anche a distanza di anni. Ma altrettanto bello è immaginare un moto di memoria corrispettivo e inverso: provare a figurarsi che siano anche le pareti, le stanze, gli spazi a ricordarsi di noi. In pagine di mirabile bellezza, in Gita al faro Virginia Woolf lascia che sia una casa a parlare. Tenuta chiusa da anni, una grande, antica casa di famiglia posta su un promontorio affacciato sul mare. Una casa che tra mobili impolverati e specchi “che hanno visto tanto” fa rivivere fasti lontani, quando tutto era un vociare di bambini, attese di gite al faro, felicità dilatate, intese, disarmonie allegre, complessità luminose. Custodiamo nei pensieri le case della nostra vita; ma anche loro non dimenticano noi. Nei loro “indecifrabili alfabeti”, sanno raccontarci e continuano a farlo.
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