Rubriche

Le grandi aziende, ultima scuola del ceto dirigente

Francesco Delzio sabato 26 agosto 2017
CChi "pensa" il pensiero collettivo, oggi, in Italia? Chi si (pre)occupa di formare i decisori pubblici, preparandoli non solo alla gestione del consenso ma soprattutto a quella della complessità? Nella gran parte delle analisi accademiche in materia, ormai da molti anni, queste domande sono considerate puramente retoriche. Perché la risposta è negativa e definitiva. C'è ancora e sempre il gran lavoro svolto negli oratori e nell'associazionismo cristiano (luoghi nei quali, come il dibattito che quest'estate si è acceso anche su queste pagine mette in luce, la politica è da tempo guardata con distacco e sospetto). Ma sono ormai scomparsi i tradizionali luoghi di formazione del ceto dirigente – dalle scuole di partito ai grandi enti economici – e così la selezione e la definizione delle competenze del politico e dell'amministratore pubblico seguono in Italia strade individuali e casuali. Con le conseguenze, in termini di "rendimento medio" dei nostri decisori pubblici, che purtroppo ogni cittadino può constatare quotidianamente.
Eppure non tutti i gatti sono neri, perfino nella notte più buia. Nelle (non molte) grandi e medie aziende "globali" con proprietà e quartier generale italiani, diversi nostri giovani talenti hanno spesso la possibilità di apprendere e praticare i valori tipici di un ceto dirigente contemporaneo: il merito e la responsabilità, la competizione e la cooperazione. E al tempo stesso sono "costretti" ad ampliare i propri orizzonti confrontandosi con le asprezze e la complessità del mercato globale, magari maturando esperienze di lavoro all'estero che daranno una solidità esclusiva al loro curriculum. Si tratta complessivamente di valori e possibilità poco diffuse, ahinoi, negli altri luoghi lavorativi e più in generale nel tessuto sociale italiano.
Questo ruolo particolarissimo e prezioso svolto oggi, più o meno consapevolmente, dalle grandi aziende italiane non viene normalmente riconosciuto loro per due ragioni fondamentali. La prima è la persistenza di una cultura anti-industriale e di una ancor più diffusa diffidenza verso il ruolo del privato, che ancora dominano sia il sentimento generale del Paese che le disquisizioni degli opinion leader. La seconda è una certa nostalgia dell'età dell'oro delle grandi imprese, quelle a controllo pubblico e a dominio partititico, che ancora riemerge ciclicamente.
Sono limiti culturali che ho avuto modo di registrare, ancora una volta, in un dibattito al quale sono intervenuto qualche giorno fa al Meeting di Rimini e che dobbiamo superare quanto prima. Nell'interesse dei nostri ragazzi, che devono avere ben chiaro dove poter mettere alla prova i propri talenti.
www.francescodelzio.it