Le etichette sui Pontefici? Inevitabili, non reggono però alla prova del loro magistero
Chi non si è mai imbattuto in queste narrazioni giornalistiche dei pontificati citati, passando anche per papa Luciani, alzi la mano. Solo narrazioni, è vero, ma pur sempre capaci di cristallizzare, intenzionalmente o meno, quelle figure spesso per contrapporre l'una all'altra, in un infinito gioco mediatico delle parti o degli specchi da cui la Chiesa, nel suo insieme, esce sempre piuttosto malconcia, se non peggio. Quasi che essa sia (o sia stata) esclusivamente un presente senza passato, e soprattutto senza un futuro. Perché sfugge, o si vuole lasciare apposta sullo sfondo, che si è davanti a un cammino, e non a vicende solitarie destinate a non fare storia.
Giovedì nell'omelia della Messa mattutina in Santa Marta papa Francesco si è voluto soffermare sulla figura di san Paolo e sulle tre dimensioni del suo apostolato: predicazione, persecuzione, preghiera. Tre atteggiamenti, ha detto, che dobbiamo fare nostri, «lo zelo apostolico per annunciare Gesù Cristo, il resistere alle persecuzioni e la preghiera, incontrarsi con il Signore e lasciarsi incontrare dal Signore». E ha ricordato, a questo proposito, la disputa sorta tra farisei e sadducei quando Paolo viene messo a giudizio, «perché i sadducei non credevano, e questi, che credevano di essere uno, si sono divisi, tutti. Questi erano i custodi della legge, i custodi della dottrina del popolo di Dio». Questa gente, ha osservato papa Francesco, «aveva perso la dottrina, aveva perso la fede perché l'avevano trasformata in ideologia».
Non è la prima volta che papa Bergoglio esprime questo concetto, e non sarà l'ultima certamente. Quel che tuttavia è interessante, in particolar modo per chi storce il naso di fronte a questa gerarchia, è un'altra cosa. «Se davvero la Chiesa, come dicevamo, ha coscienza di ciò che il Signore vuole ch'ella sia, sorge in lei una singolare pienezza e un bisogno di effusione, con la chiara avvertenza d'una missione che la trascende, di un annuncio da diffondere. È il dovere dell'evangelizzazione. È il mandato missionario. È l'ufficio apostolico. Non è sufficiente un atteggiamento di fedele conservazione. Certo, il tesoro di verità e di grazia, a noi venuto in eredità dalla tradizione cristiana, dovremo custodirlo, anzi dovremo difenderlo. Custodisci il deposito, ammonisce san Paolo. Ma né la custodia né la difesa esauriscono il dovere della Chiesa rispetto ai doni che essa possiede. Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l'offerta, è l'annuncio, ben lo sappiamo: Andate, dunque, istruite tutte le genti, è l'estremo mandato di Cristo ai suoi Apostoli. Questi nel nome stesso di Apostoli definiscono la propria indeclinabile missione. Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo». Perché «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio». È solo un passaggio della prima enciclica di Paolo VI, quella Ecclesiam suam del 1964, che dovremmo leggere e rileggere per intero. Ma questo passaggio dice già abbastanza, se non tutto, del cammino percorso e che si sta percorrendo. Dice, lasciando per una volta da parte le enfasi giornalistiche di ogni segno, della profezia di Montini e di come i suoi successori l'abbiano declinata. E di come oggi Francesco continui a farlo, con fedeltà, originalità e gioia.