Le donne di Pontormo e la risposta alle domande sul futuro
Sembra un quadro di de Chirico, l'inquietante città che fa da quinta teatrale all'incontro fra le due cugine più famose della storia: Maria ed Elisabetta.
La loro maternità è modello e paradigma di ogni maternità umana; nella loro differenza di età esse rappresentano la fecondità umana, uguale e diversa per ogni generazione.
Lo scenario modernissimo entro cui, Jacopo Carucci, detto il Pontormo, ha collocato l'evento rimanda ad altro, facendo meditare.
Nel mese mariano la Chiesa sosta in preghiera davanti alle infinite Madonne poste ai crocicchi delle strade, nelle cappelle delle chiese, negli angoli dei cortili, e consegna alla Vergine Madre le angosce e le speranze del presente. Non si può non pensare alla difficile pagina politica del nostro paese, all'assenza di energie veramente nuove e profetiche, all'incapacità manifestata lungo questi anni di essere interpreti di un popolo, quello italiano, della sua cultura e delle sue tradizioni. Perciò mi appassiona questo dipinto.
Pontormo, appena venticinquenne, si era chiuso nella Certosa di Val d'Ema, forse per sfuggire alla peste scoppiata in Firenze del 1522. La sua già alta capacità percettiva, nutrita quotidianamente dalla meditazione sulla passione di Cristo e dal canto corale dei monaci, si era affinata. L'artista cominciò ad avvertire la tensione di un mondo in continuo mutamento, dove l'uomo, collocato dal Rinascimento al centro del cosmo, rischiava di perdere il suo riferimento a Dio. Così, dipingendo attorno al 1528 la scena della Visitazione, sentì il bisogno di aggiungere oltre alle protagoniste il volto di due donne. In esse si ravvisano le ancelle che, in molte opere dal soggetto analogo, accompagnano l'incontro fra Maria ed Elisabetta. Qui tuttavia i due volti si caricano di una voluta ambiguità. Sono volti che ci guardano e, guardandoci, inquietano, ci interpellano. Le due facce obbligano a prendere posizione nei confronti dell'evento qui rappresentato: la fede nel Mistero, la responsabilità di fronte alla vita nascente, alle nuove generazioni, al destino eterno dell'uomo. Sono queste le domande che informano la vita e la storia di uno Stato, di una regione, di una città. Sono domande che aleggiano negli occhi dei due volti che ci scrutano. Soffermandoci a contemplarli non fatichiamo a ritrovare nei loro lineamenti gli stessi tratti delle due donne in scena. Sì, sembrano proprio Maria ed Elisabetta che con occhi mesti scrutano il futuro, scrutano le generazioni di credenti che le chiameranno, entrambe a diverso titolo, beate. Che cosa accadrà di questi eroici inizi, di questa Redenzione che proprio dal loro grembo prende l'avvio? Saranno questi nascituri “salvezza della città”? Se lo chiedeva Pontormo e, a maggior ragione, ce lo chiediamo noi oggi.
Due uomini piccolissimi, spuntano in basso, a sinistra del dipinto. Siedono sul muretto, come molti ragazzi di oggi, e vestono alla tedesca. In realtà essi sono una citazione di Dürer, le cui stampe erano note e amate dal Carucci, e alludono a Giuseppe e Zaccaria intenti in una discussione. Sono loro, così piccini, che ci permettono di considerare la grandezza delle donne in primo piano.
Ripenso al mese mariano e alla politica del nostro paese: chi avrà il coraggio di affidarsi alla preghiera per trovare una soluzione? Chi comprenderà che la salvezza della città risiede in quello che queste due donne nascondono nel grembo? Non certo noi che forse soffriamo proprio perché quelli che oggi potrebbero salvarci, non sono mai nati.