Indimenticabile, il ragazzino Alexander con i suoi occhi nerissimi che incantati e pieni di curiosità seguono sfilare figure e figurine illuminate e proiettate su un muro. La “lanterna magica” di Ingmar Bergman non è soltanto magia di un ricordo d’infanzia, scoperta dell’incantesimo di una tecnica di proiezione di immagini antesignana del cinematografo e che per sempre segnerà la vita adulta del regista. Non soltanto apparizione onirica e fatata, strumento chiave di quei momenti che come perle stanno incastonati accanto ad altre tessere in quel mosaico autobiografico che è il film capolavoro Fanny e Alexander. Non solo, no, molto di più: lanterna magica è un intero modo di guardare, sempiternamente valido e vivo. Il Bergman ormai diventato vecchio sceglie quelle due parole e l’immagine del favoloso macchinario per il titolo della sua autobiografia. Il suo talento unico di narratore degli animi umani gli ha permesso di restare fedele a quello sguardo d’infanzia, a mezzo tra realtà e immaginazione, tra la vita e i suoi fantasmi, tra mondo e sua fiabesca trasposizione. La vita è sogno, nell’infanzia come nella sua memoria: sogno fatto di ombre e luci, il cui racconto si dipana nella magia di quelle figure e figurine che al suono lontano di campanellini muovono passi di danza, nel buio.
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