«Il treno non è un semplice mezzo di locomozione. È un po' questo: un mix di tecnologico da un lato e di emozionale dall'altro» scrive Romano Vecchiet. Ha ragione, certo, per il primo ingrediente del mix: la tecnologia. Adesso i treni sono una specie di pterodattili, bisce volanti che sfrecciano come dannate tra pianure e colline, immergendosi nella terra dei tunnel o nel ventre delle stazioni delle grandi città, per poi riemergere, prendendo fiato solo per un attimo, verso una nuova cavalcata a trecento all'ora. Proprio così: la tecnologia crea treni sempre più veloci e silenziosi. E dentro le carrozze sembra di stare in un mondo artificiale, “spaziale”, separato dall'altro, quello vero. Ormai distanti dall'esser potenziali fiaccole dell'anarchia com'era la locomotiva di Guccini. Ed ecco il secondo lato del mix: il lato emozionale che i nostalgici rivendicano, delle vecchie, placide, ferrovie locali, narrate da Cassola, dove Dino poteva osservare gli orti e i bucati stesi; di quel treno che veniva dal Sud - che cantava Sergio Endrigo - dove Marie aveva «labbra di corallo e gli occhi grandi così»?! Convogli di migranti domestici che andavano a scordare il sole, il mare e gli ulivi, per il Nord dove di buono, però, c'era il pane caldo.