Chi mi conosce in tutta la mia potenza nevrotica stenterà a crederlo: sono stata una bambina quieta e contemplativa. Una piccola Buddha, raccontano i testimoni oculari. Dove mi mettevi, stavo. Finché guardandomi intorno - quando sarà stato? - non ho capito il destino che mi sarebbe toccato per il fatto di essere nata donna. E allora ho preso ad agitarmi e a offrire mirabili performance verbali - questo lo ricordo benissimo, avrò avuto 3 anni, il mio linguaggio si è improvvisamente arricchito di sofisticati avverbi - per dimostrare che quel destino amaro non lo meritavo, che di quel mio corpo difettoso sarei stata capace di farmi perdonare. Che sarei stata una pregevole eccezione alla regola della sottomissione femminile. È libertà? Come sarebbe andata - a me, a tutte - se non avessimo avuto il problema di sfuggire al dominio? Aderire ai modelli maschili, dimenticare e far dimenticare di essere nate donne. Quando sono stata davvero libera? Prima o dopo? Com'era la mia libertà, prima di perdere l'innocenza? La radice della parola libertà è la stessa di libido: richiama una sfrenatezza, uno slegame, lo scavalcamento dei limiti. È questa l'esperienza femminile autentica della libertà?
La messa ai margini del sentire femminile originario è il problema del mondo. Di questo sguardo, di questa differenza il mondo avrebbe un gran bisogno.