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La Val di Susa, tra quei monti storie dure e non viste

Mauro Berruto mercoledì 17 gennaio 2018
La Val di Susa è un pezzo d'Italia dove succedono tante cose di cui si parla molto poco. È lunga 80 km, si sviluppa a Ovest di Torino arrivando fino alla Francia e la abitano poco meno di centomila persone. È piena di storia, di tradizioni, di leggende. Risalendola verso il confine si superano castelli, abbazie medievali, foreste, montagne, centri sciistici. Ci transita la via Francigena, lì fra le pietre millenarie dell'Abazia di Novalesa e della Sacra di San Michele passarono Carlo Magno e Napoleone. Nelle celle del forte di Exilles, fra il 1681 e il 1687, si aggirò la misteriosa figura della "Maschera di ferro", un prigioniero che portava sempre sul viso una maschera di velluto nero e del cui caso si occuparono Voltaire e Alexandre Dumas padre. In tempi più recenti la gente di questo territorio si è distinta per il contributo alla Resistenza grazie alle azioni di partigiani fra cui il filatelico Giulio Bolaffi, che guidò la Divisione "Stellina" e combatté in Valle fino al giugno del 1945. Ancora più vicine ai nostri giorni le vicende legate al movimento No-Tav o l'esperienza del S.U.S.A. (Sentiero Umano di Solidarietà Ambientale e Artistica) che portò, il 21 dicembre del 2012, migliaia di persone a formare una catena umana, mano nella mano, lunga più di 50 km, dal centro di Torino al cuore della Valle.
Anche lo sport ne ha segnato un pezzo di storia: quale luogo dove è nato lo sci italiano (la prima stazione sciistica italiana venne inaugurata nel 1906 a Sauze d'Oulx e nel 1936 dal nulla venne costituito il comune di Sestriere) e con l'esperienza straordinaria dei Giochi Olimpici del 2006, quando Bardonecchia e la stessa Sestriere ospitarono decine di gare. In sostanza una Valle dalla storia millenaria, protagonista di passaggi, incontri, scontri, storia, storie. Ancora pochi mesi fa, l'ennesima occasione dove il racconto non è stato alla (tragica) altezza dei fatti: quegli incendi che hanno prima minacciato poi colpito, deturpato e distrutto un pezzo di Valle.
Da qualche settimana la Val di Susa è stata, come tanti altri luoghi del nostro Paese, travolta dalle precipitazioni nevose. Una ricchezza per un posto che vive di turismo sciistico, sì certo. Ma in mezzo a quella neve, si sono fatte largo altre storie di cui, ancora una volta, si è parlato appena. Storie che hanno poco a che fare con lo sport, se non per un tragico richiamo a quella struggente di Samia Yusuf Omar, raccontata dal bellissimo libro di Giuseppe Cattozella, "Non dirmi che hai paura". Samia era una ragazzina di Mogadiscio che dopo essere incredibilmente riuscita a rappresentare la Somalia ai Giochi Olimpici di Pechino 2008 (arrivando ultima ma felice nei 200 metri) decise di affrontare "il viaggio": quegli 8.000 km, l'odissea dei migranti, che dalla Somalia servono per arrivare in Libia e poi attraversare il Mediterraneo, sognando l'Europa e, nel suo caso, i Giochi Olimpici di Londra. Samia ci morì in quel Mar Mediterraneo, affogata il 2 aprile del 2012. Mettete la neve al posto dell'acqua, il freddo gelido al posto del mal di mare, le mani e i piedi che si congelano al posto dell'acqua che riempie i polmoni. Ecco ciò che sta succedendo in questi giorni in Val di Susa, dove decine di disperati si mettono in marcia, con scarpe da tennis e giubbotti che noi non indosseremmo neppure ad aprile, nella neve alta fino al petto per tentare di arrivare in Francia, passando proprio dal confine valsusino.
Sono già state tante le operazioni di recupero di ragazzi semi-assiderati a causa di quella neve, peraltro mai vista prima nella loro vita. Se ne è parlato poco, pochissimo (per questo sono stati così preziosi i reportages di fine anno su "Avvenire"), come si è parlato poco di una marcia di solidarietà chiamata «Briser les frontières» (spezzare le frontiere), messa in atto domenica scorsa. Centinaia di persone hanno camminato da Claviere al Monginevro, per portare l'attenzione su un dramma nuovo, tragicamente poco raccontato e per rendere consapevoli quei disperati di un rischio mostruoso che li manda incontro a una morte terribile e certa. La speranza è che non sia già tardi, la speranza è quella di non trovarci a dover commentare l'orribile notizia di cadaveri ritrovati e restituiti alle nostre coscienze dal disgelo, la prossima primavera.