La mia prima esperienza con il doping è di quarantasei anni fa. Credo (temo) di essere l'ultimo testimone oculare della tragedia di Sir Tommy Simpson, il ciclista che Elisabetta aveva fatto baronetto dopo le sue vittorie più importanti, una Milano-Sanremo e un titolo mondiale. Era il 13 luglio del 1967, seguivo il Tour per “Stadio” e in quel torrido giorno d'estate - 42 gradi - m'ero preparato a dovere per la tappa Marsiglia-Carpentras che ci avrebbe portato al Mont Ventoux. A circa 1.900 metri dalla vetta, vedemmo alcuni uomini chini al lato della strada, li raggiungemmo, un ciclista era a terra, coricato sull'erba; riconobbi prima il soccorritore che gli faceva la respirazione bocca-a-bocca, era Pierre Dumas, il medico del Tour; poi vidi lui, Tommy Simpson, ormai esanime, sembrava infangato, la polvere della strada s'era impastata con il sudore: «È morto», disse Dumas. Corsi verso l'auto, lo gridai a Remo Roveri, Dante Ronchi e Beppe Pegolotti, i miei colleghi di corsa, mentre Simpson veniva portato via con la gente che gridava e piangeva in quell'inferno. Mi ricordai che qualche sera prima, dopo la tappa del Galibier, l'avevo intervistato con alcuni colleghi e lui, restando sul sellino con un piede a terra, perdeva liquidi da sotto senza neanche accorgersene. La corsa continuò, sul piazzale del Monte c'era festa, l'accordeon cantava allegro, popolani in costume bevevano vino rosso dagli orci, donne coloratissime chiamavano attenzione, tutti eran pronti per la festa nazionale del giorno dopo, 14 luglio, presa della Bastiglia. Uno fra noi disse la sua scemenza: «Lui invece ha preso la pastiglia...». Arrivammo alla sede di tappa, a Carpentras, la sala stampa era una chiesa sconsacrata, subito si levò il coro ticchettante delle macchine da scrivere, stava nascendo la triste leggenda del Baronetto Drogato. La raccontai anch'io e il giorno dopo, mentre la corsa ripartiva, quasi indifferente alla tragedia, restai a Carpentras per seguire le indagini, l'autopsia, per raccogliere dichiarazioni. Per scoprire che Tommy era pieno di anfetamine che in corsa aveva annaffiato di cognac. Una bomba. Moribondo, continuava ad agitare le gambe come se pedalasse e singhiozzava «Voglio andare avanti, avanti, avanti...». Gli altri erano già da ore sulla strada a seguire la tormentata corsa di Gimondi e gli scatti poderosi di un Pingeon privo di fascino, una sorta di ragioniere sui pedali. Fu la mia prima lezione di doping. La seconda, due anni dopo, quando scoprii che Eddy Merckx era risultato positivo alla terza tappa del Giro d'Italia, la cronometro di Montecatini. Me lo rivelò il dottor G., addetto ai controlli antidoping, nella hall dell'Hotel Pace. Seguivo la corsa per la “Gazzetta” e il “Guerino”, nessuno credette alle mie rivelazioni, me le tenni fino alla tappa di Campitello Matese, poi chiamai il Conte Rognoni, al “Guerino”, e potei scriverlo. Il giorno dopo, a Savona, uno strillone sventolava il foglio ornato di verde: “Merckx drogato!”. Di lì a poco ci dissero che Merckx era stato cacciato. Per la prima volta fui ospite del “Processo alla tappa” di Zavoli e potei raccontare tutto. Quel mondo di cui ero ospite passeggero non mi perdonò mai e fui appiedato per sempre. Di lì a poche settimane il presidente dell'Uvi Rodoni perdonò Merckx. L'ipocrisia aveva vinto. Tornai a scrivere di ciclismo quando nel '98 Pantani vinse Giro e Tour: parole alate che fui costretto a rimangiarmi e che rammentai con un nodo alla gola la sera in cui commentai la fine del “Pirata”, morto in un meublé a Rimini, d'inverno, solo e disperato. Non ho mai speso parole da moralista a scoppio ritardato, ho sempre accusato i signori del doping e l'indifferenza di quella strana gente “sportiva” che più tardi avrebbe applaudito Armstrong pur sapendolo re del trucco, cialtrone e sleale. Dedico queste note a Danilo Di Luca e Mauro Santambrogio, gli ultimi beccati in castagna. Paura e vergogna i sentimenti che ispirano. Ai più giovani, dilettanti e professionisti, dico soltanto: ricordatevi di Simpson.